Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
LA QUESTIONE

Un’assoluzione generale ingiustificata

Il Covid non rientra di per sé nei casi di grave necessità indicati dal CIC per autorizzare le assoluzioni generali. L’assoluzione individuale è l’unico mezzo ordinario per ottenere la remissione delle colpe: per derogare a tale principio servono “congiuntamente” due elementi, come chiarisce una Nota del 1996 del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi. La Penitenzieria non ne ha tenuto conto, prestando il fianco ad applicazioni inaccettabili.

Editoriali 24_12_2020

Qualche giorno fa (vedi qui) avevamo cercato di comprendere le ragioni dell’inopportunità della decisione della Penitenzieria Apostolica di autorizzare le assoluzioni generali, in ragione dell’attuale situazione di pandemia. Il documento, firmato dal Penitenziere maggiore, il cardinale Mauro Piacenza, afferma che «questa Penitenzieria Apostolica ritiene che, soprattutto nei luoghi maggiormente interessati dal contagio pandemico e fino a quando il fenomeno non rientrerà, ricorrano i casi di grave necessità», previsti dal can. 961 § 2 del Codice di Diritto Canonico.

Non si capisce per quale ragione, la pandemia possa, per se stessa, rientrare nei casi di grave necessità indicati dal Codice. Infatti, una Nota esplicativa del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, dell’anno 1996, forniva l’interpretazione autentica del canone summenzionato, andando in tutt’altra direzione rispetto alla Penitenzieria.

L’assoluzione individuale è l’unico mezzo ordinario e di diritto divino per ottenere la remissione delle colpe: questo significa che non è possibile fare altrimenti, salvo quelle situazioni in cui la individuali et integra confessio atque absolutio sia resa di fatto impossibile - fisicamente o moralmente - dalle circostanze. Impossibile, non difficile. Su questo fondamento dogmatico, le eventuali eccezionalità devono essere necessariamente interpretate in senso restrittivo, secondo quanto indicato dal canone 18: «Le leggi [...] che contengono un’eccezione alla legge, sono sottoposte a interpretazione stretta».

L’interpretazione restrittiva è altresì supportata dall’iter di redazione del canone 961. Lo schema De sacramentis, del 1975, suggeriva che l’assoluzione senza confessione individuale previa «poteva o persino doveva» essere concessa alle condizioni previste; nella stesura definitiva si preferì invece introdurre la forma negativa «non può essere impartita se non», espressione che delimita nettamente e in modo vincolante l’assoluzione generale alle situazioni previste, senza possibilità di deroghe.

Il Pontificio Consiglio giungeva pertanto a spiegare che «perché si verifichi tale stato di “grave necessità” devono concorrere congiuntamente due elementi: primo, che vi sia scarsezza di sacerdoti e gran numero di penitenti; secondo, che i fedeli non abbiano avuto o non abbiano la possibilità di confessarsi prima o subito dopo. In pratica, che essi non siano responsabili, con la loro trascuratezza, dell’attuale privazione dello stato di grazia o dell’impossibilità di ricevere la santa comunione (“sine propria culpa”) e che questo stato di cose si protrarrà prevedibilmente a lungo (“diu”)». Notare l’avverbio «congiuntamente»: la netta “sproporzione” confessori-penitenti è condizione necessaria ma non sufficiente: è anche necessario che i fedeli siano stati nell’impossibilità di confessarsi precedentemente e lo siano anche successivamente. E viceversa.

La Nota della Penitenzieria purtroppo non solo non richiama quella fondamentale del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, ma riduce l’indicazione del can. 961 ad una non specificata «grave necessità [...], la cui considerazione spetta al Vescovo diocesano/eparchiale, tenuto conto dei criteri concordati con gli altri membri della Conferenza Episcopale». Invece la Nota del 1996 chiariva con precisione, come si è visto, quali devono essere le condizioni imprescindibili e concomitanti per definire tale grave necessità e demandava al Vescovo «di verificare la presenza o meno delle condizioni stabilite dal Codice di Diritto Canonico», precisando nel contempo che l’Ordinario «non può stabilire i criteri e non ha in alcun modo il potere di modificare, aggiungere o togliere le condizioni già stabilite nel Codice e i criteri concordati con gli altri Membri della Conferenza episcopale». La circoscrizione della “grave necessità” è presente anche nel Dizionario Teologico-Pastorale, pubblicato nel 2016 dalla medesima Penitenzieria, alla voce Assoluzione (formula della-), curata da Lubomir Welnitz, di recente nominato Cerimoniere pontificio. Questo testo richiama il can. 916 nella sua interezza e sottolinea che il principio chiave è appunto quello dell’impossibilità fisica o morale di accedere al sacramento, e non la semplice difficoltà.

È chiaro che questo nuovo approccio della Penitenzieria ha finito per aprire le porte a decisioni del tutto discutibili, come quella dell’Arcidiocesi di Torino e della Diocesi di Susa (vedi qui), che ha disposto l’utilizzo dell’assoluzione generale «secondo le indicazioni citate del Rito della Penitenza, non solo per gli adulti, ma anche per i bambini e i ragazzi che seguono il percorso di iniziazione cristiana», per il periodo dal 16 dicembre al 6 gennaio. Che tutte queste persone siano impossibilitate a confessarsi individualmente in un tempo ragionevole, è veramente fantasioso pensarlo.

Un altro grosso errore compare nel Comunicato della Conferenza episcopale piemontese, laddove si raccomanda di accompagnare l’assoluzione generale con «un’adeguata catechesi che metta in rilievo la straordinarietà della forma adottata per il Sacramento, la grazia del perdono e della misericordia di Dio, il senso del peccato e l’esigenza di una reale e continua conversione, con l’invito a vivere - non appena sarà possibile - il Sacramento stesso nelle modalità e forme tradizionali e ordinarie (confessione individuale)». Confessarsi individualmente non appena possibile, dopo un’eventuale assoluzione generale, è però un obbligo non un invito. Ed è un obbligo ad validitatem. Chiunque dovesse accostarsi, nelle situazioni di grave necessità previste dal Diritto, alla “confessione generale”, senza il proposito di confessare le proprie colpe gravi individualmente al sacerdote, non appena possibile, non riceve affatto l’assoluzione delle colpe.

La Nota del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi aggiungeva infatti con appropriatezza: «Perché l’assoluzione generale impartita secondo i criteri canonici sia valida, si richiede, oltre le disposizioni necessarie per la confessione nel modo ordinario, il proposito di confessare in maniera individuale tutti i peccati gravi che non si sono potuti confessare a causa dello stato di grave necessità». In particolare, la confessione individuale deve essere fatta «prima di un’altra eventuale confessione generale e deve essere effettuata “quam primum”, cioè non appena terminate le circostanze eccezionali che hanno provocato il ricorso all’assoluzione collettiva».

In ogni caso, come afferma il Rito della Penitenza della CEI, al n. 34, coloro ai quali sono stati rimessi i peccati mediante l’assoluzione collettiva, sono «strettamente obbligati, tolto il caso di impossibilità morale, a presentarsi entro un anno al confessore», in virtù del precetto generale di confessarsi almeno una volta all’anno.

È evidente che le imprecisioni della Nota della Penitenzieria stanno prestando il fianco ad applicazioni inaccettabili, che non tengono più conto dell’interpretazione restrittiva del canone 961 e giungono persino ad attenuare le condizioni indispensabili perché l’assoluzione generale possa essere considerata non solo lecita, ma anche valida.