Un Papa troppo "verticale" per il conformismo
Per capire la serie The young Pope, diretta dal premio Oscar, Sorrentino, bisogna uscire dai moralismi mainstream e dalla dialettica progressista/conservatore. Il dramma di Papa XIII è rimproverare al mondo di aver dimenticato Dio. Solo che lo fa con armi improprie, politicamente scorrette.
Comprendere The Young Pope non è facile. Bisognerebbe togliersi i cliché con i quali siamo soliti incasellare la figura del Papa. L’errore marchiano che molti giornali e commentatori hanno fatto al termine delle prime due puntate della serie di Paolo Sorrentino su Sky Atlantic, è stato quello di incasellarlo nelle categorie stantie di conservatore o tradizionalista. In realtà con questa manichea divisione non si è in grado di esprimere un giudizio sulla serie che sia davvero distaccato e privo di tifoserie. Chi accentuerà gli aspetti più conservatori di Pio XIII interpretato da un magnetico Jude Law resterà deluso, chi si aspetta che un Papa al cinema debba essere o un progressista rivoluzionario volemossebbene o un inetto rappresentante di un potere decaduto, non capirà mai a fondo lo sforzo che il regista napoletano ha voluto fare per raccontare la storia di Lenny Belardo, il primo Papa statunitense della storia della Chiesa.
Che non è una fotografia di ciò che realmente noi sappiamo e percepiamo del papato, anche perché oggi di quello che dice e che fa un pontefice abbiamo tutti gli elementi per farci un’idea. Ma è un racconto onirico, che cela un mistero in ogni gesto e che non vuole tracciare un identikit di come debba essere un Papa secondo categorie moraliste e falsamente morali, ma è semmai il riflesso di un dramma: il dramma di un uomo che improvvisamente si ritrova sulla testa un compito immane: guidare un miliardo di cattolici alla conoscenza di Dio, come gli suggerisce suor Mary, interpretata da Diane Keaton fatta arrivare apposta dagli Stati Uniti per diventare la segretaria particolare di quel bambino ospitato in orfanotrofio dopo la morte dei genitori.
Lenny Belardo vive un dramma interiore: la non accettazione della morte dei genitori e la sua ricerca di Dio è incentrata continuamente nel grido disperato della ricerca di un padre. Frustrante, come ha fatto Famiglia Cristiana, è dunque rimproverare col ditino puntato che non ci sia alcun afflato spirituale in The Young Pope, perché invece ce n’è a sufficienza in quelle braccia allargate che lo fanno sembrare un Pio XII redivivo. Siamo noi che non ci vogliamo togliere dalla testa l’idea di un Papa che debba essere per forza macchietta e specchio dei tempi e delle esigenze dell’oggi. Le sue categorie mentali non sono quelle del buono o del cattivo, ma sono quelle del sacro e dell’eterno che il mondo ha cacciato fuori dalla porta.
Eppure basterebbe fermare un attimo il tempo per entrare nel papa di Sorrentino e scoprire che invece è quanto di più naturale, tradizionale e riformatore al tempo stesso, possa esserci, una volta tolta la patina degli eccessi che gli vengono rimproverati: come ad esempio il fatto che fumi tra i sacri palazzi. Certo, costringe un monsignore confessore a violare il segreto confessionale per conoscere i segreti dei suoi cardinali di curia, e questo è blasfemo, ma chi gli rimprovera questo peccato gravissimo dimentica di aggiungere che il prete cede per ambizione dato che gli viene promesso il cardinalato.
Pio XIII è sicuramente "cattivo" se viola il sacramento della confessione e per certuni il discorso potrebbe anche finire lì. Invece in quel personaggio c’è molto da scoprire e da comprendere per riportare la figura del Papato nei canoni che la storia e la Chiesa gli hanno assegnato. In un’epoca di palese variazione dell’istituzione papale non è un’operazione che si fa a cuor leggero.
Alla suora romanesca che gli promette le fettuccine alla carbonara e lo vezzeggia con carezze e bacetti sulla guancia, Pio XIII fa notare gelido che i rapporti d’amicizia portano al caos. “Ci vogliono rapporti formali perché questi generano riti e i riti producono ordine”. E l’ordine è una categoria del divino.
A colazione pretende di bere un’introvabile, in Vaticano, Cherry Coke e per tutti questo è stravagante. Ma ci si dimentica che Papa Ratzinger, lui, bavarese!, non beve birra, ma solo aranciata. E che Papa Francesco ha fatto conoscere al mondo la bevanda nazionale argentina, il mate, che è tanto buona quanto “proibita” negli stati confinanti. Dove sta lo scandalo dunque? Forse nel suo essere in controtendenza con i cliché che vorremmo imporre al vicario di Cristo.
Affabile? Per nulla. Piacione e vicino al popolo? Manco per idea. La scena madre della seconda puntata è un capolavoro di tattica e di abbandono a Dio. La responsabile del merchandising portata dal segretario di Stato gli rimprovera che a pochi giorni dalla sua elezione non si sia ancora provveduto a fare foto ufficiali di sua santità per iniziare a veicolare il marchio papa negli accendini, nei piatti e in tutte le chincaglierie da bancarella.
Papa Belardo non risponde, come il mainstream avrebbe supposto con uno sdegnato no alla mercificazione della sua immagine, ma rilancia: “Volete fare un piatto con la mia immagine? Molto bene: la mia immagine è questa”, dice indicando un piatto bianco di porcellana. Perché “io non sono nessuno, la gente in me deve vedere solo Dio. Io non ho volto”. Sublime sintesi di instauratio omnia in Christo per la quale non servono né eremitismo né distacco aristocratico, ma conoscenza dello stesso mondo dal quale ci si vuole allontanare, come Mina, come Kubric, come Salinger, come i Daft Punk: ognuno nel suo campo è stato il più importante, non il più bravo perché la bravura appartiene agli arroganti. Uniti dal filo rosso della scomparsa al mondo per eternare la loro opera.
Chi si scandalizza non sa o non vuole ricordare che prima dell’avvento dei moderni mezzi di comunicazione vedere il volto del Papa era un accessorio che spettava nella vita ad una percentuale bassissima di privilegiati. Bastava sapere che c’era, che guidava la Chiesa con il suo magistero. Forse che quando Matilde ospitò Gregorio VII nella rocca di Carpineti lontano da Roma e probabilmente in pericolo, la Barca di Pietro non era saldamente in mano del suo sposo? Tra quelle pareti di roccia, che oggi sono rudere, guidò per alcuni giorni la Chiesa e lì celebrò messa. Il mondo non lo sapeva nemmeno, ma per un attimo la sede fu custodita tra quei monti perché ubi Petrus ibi ecclesia. Oggi pretendiamo di raccontare la vita del vicario di Cristo play by play e non ci accorgiamo che così facendo la rendiamo debole e mondana, profana e banale, facendole perdere quel sacro della quale è portatrice per meriti che non ha certo conseguito con doti umane e caduche.
Anche i peccati di questo Papa rimandano ad un’altra dimensione. Che peccati commette un Papa? La domanda incuriosisce morbosamente tutti, ma durante la sua prima confessione lo vediamo con lucida razionalità dire al frate di avere come unico peccato il fatto che la sua coscienza non lo rimprovera di nulla. E anche qui, con la puzzetta sotto al naso, il barnum ecclesiomediatico lo ha apostrofato come sbruffone o superbo. Invece, a ben guardare, quella è una confessione straordinaria, perché è nient’altro che il rendersi conto che la propria coscienza gli sta comunicando di essere in standby. Lui questo lo percepisce drammaticamente. Non è un’ammissione di poco conto, così come non è un peccato di poco conto dato che per molto meno anime sante si sono tormentate per la notte oscura di Dio nell’anima e per un’aridità spirituale dalla quale sono risorti.
La sua prima preoccupazione è quella di incontrare il prefetto della Congregazione del Clero. Per fargli una sola domanda che, ovviamente, in pochi hanno preso in esame: “Eminenza, lei è omosessuale?”. All’imbarazzato sì del suo interlocutore, Pio XIII non gli rimprovera di non averlo votato in conclave perché lo pensava conservatore, ma gli chiede se sia normale che il prefetto che guida i presbiteri sia omosessuale. Politicamente scorretto allo stato puro per una istituzione ecclesiastica che oggi sta facendo i conti tra imbarazzo e ambiguità, con un’accettazione acritica e sdoganata dell’omosessualità proprio nel clero.
Si procede così, per ossimori e contraddizioni, che coinvolgono anche altri personaggi della serie. Come il segretario di Stato Voiello, nel film è Silvio Orlando, che è tanto cinico quanto attaccato a soldi e potere, ma che rompe il cliché facendosi sorprendere mentre fa visita di notte ad un ragazzino gravemente cerebroleso che imbocca teneramente. Non ci sono cliché, come non ci sono pregiudizi. C’è un dramma che si interseca nel mistero. C’è la verticalità dell’uomo di fronte a un Dio che non è cattivo né buono. E’ Dio e basta. E gli uomini, come dice la silhouette di Belardo finalmente apparso in penombra sulla loggia delle benedizioni per il suo primo pronunciamento pubblico, lo hanno dimenticato.