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SINDACALISMI

Un paio di lezioni dalla Fiat "americana"

Due sindacati di lavoratori nel settore automobilistico, due esempi di etica del lavoro molto differenti. Eppure parliamo della stessa azienda: la Fiat. Uaw e Fiom sono entrambi sindacati "duri", ma il loro comportamento è opposto.

Economia 04_01_2014
Marchionne e Obama

Ci sono molte lezioni da trarre dalla fusione della nostrana Fiat con l’azienda automobilistica americana Chrysler. In primo luogo, il comportamento naturalmente differente fra i sindacati americani e quelli italiani.

La Fiat ha infatti rilevato la quota minoritaria (41,5% delle azioni) detenuta dal fondo previdenziale dei lavoratori (Veba) iscritti al sindacato Uaw, divenendo azionista di maggioranza della Chrysler. La trattativa non è stata facile. Dopo una prima offerta di Fiat, formulata l’estate scorsa, l’Uaw aveva risposto negativamente all’inizio del mese scorso. Dopo altri trenta giorni di negoziati, Fiat ha comunque concluso con successo l’affare, fondendosi con Chrysler, rilevando le quote per 4 miliardi e 350mila dollari, meno dei previsti 5 miliardi. Una trattativa finanziaria come le altre? No. Scomponiamo la notizia per comprenderne appieno l’importanza. La quota del 41,5% rilevata da Fiat, fino all’altro ieri era posseduta da un fondo Veba dei lavoratori del sindacato Uaw. Dunque c’è un sindacato che incoraggia i lavoratori a costituire un fondo (che non fornisce solo pensioni, ma anche altre forme di assistenza, come la sanità) privato e possessore di azioni della loro stessa compagnia. Non solo i lavoratori sindacalizzati sono responsabili del loro futuro di pensionati e si auto-assistono in caso di problemi sanitari, ma sono direttamente responsabili dell’azienda di cui sono proprietari. Abbiamo mai visto un sindacato italiano proprietario di azienda e responsabile della sua gestione?

Da quando Sergio Marchionne è manager dell’azienda automobilistica di Torino, i sindacati, in particolare la Fiom (la sezione metalmeccanici della Cgil) si è impuntata contro ogni cambiamento. Lo abbiamo visto negli stabilimenti di Pomigliano e Mirafiori, dove gli operai e gli impiegati hanno votato a maggioranza risicata alcune piccole modifiche del contratto (diversa distribuzione dei turni, più ore a disposizione per gli straordinari e 10 minuti in meno di pausa, robe di questo genere): la Fiom, assieme agli autonomi del Cobas, erano decisamente contrari a votare per ogni intesa. A Melfi, tre operai iscritti alla Fiom sono stati licenziati per sabotaggio contro la catena di montaggio. Poi sono stati reintegrati dietro sentenza della magistratura, ma uno dei dipendenti, mantenendo l’anonimato, aveva dichiarato, in un’intervista rilasciata al settimanale Panorama: «quelli della Fiom non ottenevano niente con lo sciopero e hanno studiato un’azione più eclatante». Cioè: «Un loro delegato ha portato il gruppo verso i carrellini, con l’idea di bloccare la linea di montaggio che era rimasta in funzione».

Una seconda lezione è il comportamento della magistratura. Negli Stati Uniti, la giustizia non ha intralciato l’operazione di fusione. Il tribunale del Delaware è stato chiamato in causa per una disputa sul prezzo. Il fondo del sindacato e la Fiat hanno cessato la disputa non appena hanno concluso l’accordo. In Italia, la magistratura è intervenuta più volte, a gamba tesa, contro la Fiat e a favore degli operai. I tre licenziati di Melfi, ad esempio, sono stati subito reintegrati dopo che l’azienda è stata condannata per “comportamento anti-sindacale”. Nello stabilimento di Pomigliano, sempre la magistratura ha imposto alla Fiat l’assunzione di operai tesserati alla Fiom, perché quel sindacato era assente fra le squadre dei lavoratori. È o non è una vera discriminazione alla rovescia? La politica, oltre alla magistratura, sta intervenendo a gamba tesa. Gli stabilimenti più improduttivi dell’azienda torinese sono ancora aperti per intervento del governo, che ha anche stanziato fondi pubblici per permettere il pagamento dei costi. Il principio è quello di non chiudere nulla e non licenziare nessuno, costi quel che costi. E tuttora, dopo la conclusione (con successo) dell’operazione Chrysler, l’atteggiamento dei politici è quello di una forte pressione per indurre Fiat a non ridurre gli investimenti in Italia. Che questi ultimi possano danneggiare l’azienda non è un affare che interessi al governo. Negli Usa la politica, pur sbandierando il principio del “buy American” (compra americano) non ha impedito neppure che una grande azienda automobilistica finisse in mani straniere.

C’è una distanza abissale fra noi e gli Usa. Più che quelle otto ore di volo, è una distanza culturale immensa, nel modo di intendere il lavoro e le relazioni aziendali. Il caso Fiat ne è un’ulteriore conferma.