«Un padre che sapeva parlare al cuore dell’uomo»
Il primo incontro alle riunioni di Gs a Milano, poi come insegnante di religione al Berchet di Milano, gli anni della contestazione studentesca, poi il compagno di una vita compresa l'ordinazione sacerdotale. Monsignor Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia, ricorda in questa intervista il suo maestro don Luigi Giussani.
Un bambino di poco più di tre anni che guarda incuriosito un giovane sacerdote in un ambulatorio medico. Ci sono fotografie che restano stampate nella memoria e non hanno bisogno di alcun supporto artificiale per poter essere impresse. Quell'incontro di 65 anni fa per Massimo Camisasca è ancora nitido, a colori. Un archetipo di quella che sarebbe stata la sua vita. «É il primo ricordo che ho di don Luigi Giussani», spiega in questa intervista concessa in esclusiva per Prima Pagina in occasione del decimo anniversario della scomparsa del fondatore di Comunione e Liberazione. «Era il 1949, avevo 3 anni e mezzo e Giussani, che era malato di polmoni, era stato appena visitato dal tisiologo». Quel medico era lo zio del futuro vescovo di Reggio Emilia e Camisasca si trovava nel suo studio. Un incontro fugace, ma evidentemente essenziale dato che quella vista è ancora impressa nella memoria del pastore reggiano.
Perché lui fra tanti?
«É quello che mi chiedo ancor oggi. La spiegazione che mi do è che quella visita fu commentata in casa, fu ripresa anche successivamente nei ricordi e quindi rimase nella mia memoria di bambino piccolo».
Anche perché poi con Giussani ci fu un incontro più “ufficiale”.
«Lo incontrai definitivamente nel 1960 quando iniziai a frequentare la IV ginnasio al Berchet di Milano. Lui aveva già fondato Gioventù Studentesca. Negli anni dal '60 al '63 partecipavo agli incontri di GS in via Statuto a Milano e alle gite con lui. Poi dal '63 al '65 divenne anche il mio insegnante di religione».
Che anni furono?
«Furono i tre anni fondamentali della mia vita. Il Giussani insegnante mi fece scoprire il don Luigi come maestro e come uomo. I contenuti delle sue lezioni, arricchiti del suo insegnamento successivo, hanno costituito l'asse portante della mia esistenza».
Che cosa può colpire di un insegnamento scolastico tale da diventare asse portante della vita?
«Il suo insegnamento sul senso religioso, cioè sulla struttura fondamentale di ogni uomo, la religiosità come cardine portante della persona umana, tutto questo mi ha accompagnato nella vita».
Religiosità fa rima con Gesù?
«Furono le sue lezioni a rivelarmelo. Le lezioni di Giussani su Cristo nel secondo anno di liceo furono condotte con un carisma tale da portarci alla contemporaneità di Gesù, a una immedesimazione totale nelle sue parole».
Parlare di Gesù in anni difficili come quelli della contestazione studentesca non deve essere stato facile...
«È vero. Nel terzo anno di liceo affrontammo le lezioni sulla Chiesa. Don Giussani è stato un grande apologeta della Chiesa. Vi vedeva il cuore espressivo dell’incarnazione. Tutto questo mi ha fatto entrare nell’umanità della Chiesa, comprendendo anche i suoi errori, ma per niente giustificandoli, anzi perdonandoli».
Come vivevate la contestazione che vi stava attorno?
«Erano gli anni in cui anche in ambienti cattolici si diceva: “Gesù sì, Chiesa no”. Ma Giussani sapeva spiegare che questa frase era pericolosa perché portava di fatto a “Gesù no”. Il suo insegnamento era così umano e provocante che nessuno rimaneva insensibile. Ci sono persone che quando morì, anche se non aderirono mai a Cl, si fecero comunque 7 ore di fila per poterlo omaggiare e pregare un istante sulle sue spoglie mortali. É questo il solco profondo che ha lasciato».
In lei che solco ha lasciato?
«Ha solcato tutti i momenti principali della mia vita, compresa l'ordinazione sacerdotale. Soltanto l'elevazione a vescovo non l'ho vissuta con lui. Volli diventare prete perché affascinato da Gesù attraverso la sua figura, e nel '78 fu lui a inviarmi a Roma per seguire le relazioni pubbliche tra Cl e il Vaticano. In quella stagione ho potuto vivere a contatto con Giovanni Paolo II la stagione del riconoscimento pontificio del movimento e la nascita della Fraternità San Carlo».
Anche qui c'era il suo “zampino”?
«Fu una decisione comune, eravamo sei sacerdoti incardinati a Bergamo. Alcuni di noi non eravamo stati voluti nel seminario di Milano. Nacque in noi il desiderio di costituire un'associazione di sacerdoti per la missione. Don Giussani fu felice, sostenne l'idea e mi diede l'incarico di portarla avanti. Così nacque la San Carlo e Giussani mi affidò il compito di guidarla».
Che difficoltà incontraste?
«Ce ne furono diverse. Ricordo che nell'85 la Fraternità fu riconosciuta come associazione di fedeli, mentre nell'89 come Società di Vita Apostolica grazie al coraggio del cardinal Poletti».
Perché coraggio?
«Due giorni prima del riconoscimento tutto sembrò fallire, dentro la Cei evidentemente c'erano voci discordi. La Società di Vita Apostolica avrebbe potuto incardinare i sacerdoti e nella Chiesa di allora non era frequente che una realtà nata dal carisma di un movimento potesse incardinare sacerdoti, tutto questo era visto come negativo. Fu grazie alla fermezza del cardinal Poletti che ottenemmo il riconoscimento».
Qual è stata la dinamica principale del carisma di don Giussani?
«La giusta comprensione della dimensione personale e affettiva del cristianesimo in una comunità dove si vive l'esperienza della paternità. Comunità di persone e autorità della figura paterna sono stati i due lasciti più grandi che ho avuto per la mia vita dal suo carisma».
Giussani è stato anche un profeta del nostro tempo?
«Certamente: aveva intuito moltissimo. In un libro chiamato L'uomo e il suo destino descrive perfettamente tutto quello che sta accadendo ora a cominciare dalla sistematica distruzione dell'umano, ma fornì anche indicazioni per una ripresa».
E qual è l'indicazione?
«Mi colpisce ancor oggi come sapesse descrivere la distruzione dell'umano che avveniva in Europa e che coincideva con l'allontanamento dell'uomo da Dio. Giussani indicò nell'umile riconoscimento della debolezza dell'uomo la strada per la sua rinascita».
Giussani è stato anche molto avversato in molti ambienti cattolici, spesso per pregiudizi. L'ha mai visto sconfortato?
«Difficilmente mostrava all'esterno i suoi scoraggiamenti, era un uomo che attraversava sempre con giudizio ed esperienza di fede il momento presente. Però ha sofferto tantissimo e in certi momenti questa sofferenza era così visibile da far tremare chi gli stava accanto».
Come viene vissuta la figura di Giussani in una realtà come Reggio, che a livello ecclesiale si può dire non l'abbia mai conosciuto?
«Le racconto una cosa che non ho mai detto. Sto incontrando tanti sacerdoti reggiani che hanno conosciuto Giussani e non ne hanno mai parlato».
Per paura?
«Non saprei. Però mi ha commosso una telefonata di un sacerdote alcuni giorni fa in occasione del suo compleanno».
Perché?
«Mi ha detto: “Eccellenza, ho letto quasi tutti i suoi libri e mi hanno fatto scoprire Giussani. E Giussani mi ha fatto scoprire la Chiesa».
Crede che Giussani possieda caratteristiche di santità?
«Certamente sì. Soprattutto per la sua fedeltà all'opera che Dio aveva iniziato su di lui».
Che cosa ricorda del rapporto tra Giussani e Giovanni Paolo II?
«Tanti momenti. Mi colpì la sintonia dal punto di vista intellettuale nonostante la differenza di temperamento. Ma anche la fiducia reciproca e l'amore spassionato alla Chiesa. Erano entrambi consapevoli che la Chiesa dovesse essere un segno visibile nella storia del mondo. Ma anche la capacità carismatica forte nell'incontro con gli uomini, il fascino della loro personalità e il fondo mistico della loro vita».
Spesso si accusa Giussani di aver scritto libri difficili da capire...
«I suoi libri non sono tutti uguali. Molti nascono come trascrizioni del parlato e questo rende difficile un approccio immediato. Allora consiglio di leggere e sottolineare quelle frasi che abbiamo capito: sono il filo d’Arianna per comprendere il resto».
Qual è uno dei ricordi personali più belli che ha di lui?
«Ricordi gioiosi ce ne sono tanti. Pochi anni prima che morisse andai a pranzo da lui. Non parlammo né del movimento né della Fraternità, ma parlammo di noi in chiave privata. Mi confidò che si ricordava perfettamente di me bambino, di me e mio fratello in banco assieme a scuola, di mia nonna e di mia mamma. Erano per me gli anni del mio passaggio dalla giovinezza alla maturità e per lui della nascita del movimento. Ma in quei ricordi c'era la prova che mi custodiva già allora».