Un horror per farci passare la voglia di mangiare insetti
Insetti come cibo. Ad allevarli ci ha pensato una famiglia francese nel film Lo sciame. Finirà come nei più classici del genere horror: con sciami di cavallette voracissime e flebo di sangue umano per nutrirle. Chi di ecologismo ferisce di ecologia perisce.
Purtroppo lo hanno fatto i francesi, che, a mio personalissimo giudizio, hanno un gusto in fatto di cinema tutto gauche caviar, nouvelle vague, cahiers du cinéma, cinéma d’essai e via sofisticheggiando per palati fini e salottieri, un cinéma tutto palme, orsi d’oro e nastri d’argento, puntato più sui festival che sul pubblico pagante. Il risultato è, come nel caso che vado a descrivere, una buona idea di base diluita in una serie senza fine di contorsioni esistenziali e psicologiche, tal che ancora a metà del film non capisci dove si intende andare a parare.
La buona idea di base, almeno per il sottoscritto e quantomeno originale dati i tempi che corrono, è l’utilizzo di un’idea ecologissima: insetti come cibo. La protagonista è una donna che, par di capire, ha fatto una scelta green insieme al marito e ha portato la famigliola (due figli problematici) ad allevare capre in una fattoria nella campagna francese. La figlia grande - a parte i soliti episodi di bullismo che ormai nei film sono fastidiosamente obbligatori ogni volta che si parla di adolescenti a scuola- è l’unica che pare avere la testa sulle spalle in un gruppo familiare sconvolto dalla subitanea morte del padre in un non specificato incidente.
L’improvvisa vedova si ritrova con problemi economici a josa e non sa più come far quadrare il bilancio (non si sa perché, con la morte del marito anche l’attività è andata a ramengo). L’unico vicino su cui poter contare è un (naturalmente) immigrato nordafricano che fa il viticultore ma è innamorato della vedova, cosa che osta a una più stretta collaborazione. Non che a lei non piaccia, infatti a un certo momento cede alla passione seppur brevissimamente, ma è ossessionata dal bisogno di denaro per andare avanti.
Ed ecco l’idea: allevare cavallette. In una testa già orientata al green, il timore dell’esaurimento mondiale delle risorse alimentari attecchisce quasi di necessità e le cavallette sono più ricche in proteine di una bistecca, la cui produzione inquina e abbisogna di grandi quantità di preziosa acqua.
Costruiti gli impianti nel cortile (e pazienza se deve tagliare qualche albero, danno collaterale inevitabile), si accorge, però, presto che ancora, ahimè, le cavallette fritte non hanno questo gran mercato. I soli acquirenti sono allevatori di bestiame (vero) che trovano la farina di cavallette tritate più economica come mangime animale. Ma, per il famoso bilancio di cui si diceva, di insetti ce ne vorrebbero cento volte di più di quelli che la nostra protagonista ha a disposizione. Fino al giorno in cui, feritasi mentre accudiva le bestiole, si accorge che queste adorano il sangue.
Ed è qui che il film devia sull’horror (ma, come si è detto, dopo un’ora buona di visione), perché lei, ormai fuori di testa, prima nutre le cavallette con flebo del suo sangue. Poi, vedendo che l’espediente funziona alla grande, comincia a utilizzare sangue altrui, giacché il suo non basta. Spariscono animali dei vicini, spariscono vicini, sparisce ogni parvenza di senno dalla mente della donna.
Il finale è in stile coi classici dell’orrore, con sciami di cavallette tali da oscurare il cielo, voracissime di quella carne&sangue a cui la sventurata li ha inavvedutamente avvezzati. Il film, in fin dei conti, è un guazzabuglio di temi socio-esistenzial-psico-horror, ma l’idea che chi di ecologismo ferisce di ecologia perisce è pur sempre intrigante. Ripetiamo: di questi tempi. Ah, dimenticavo il titolo: Lo sciame. Regia e interpreti, trascurabili.