Ultime dai Tribunali: dove c'è affetto c'è una famiglia
Il Tribunale di Reggio Emilia ha riconosciuto, per la prima volta, la risarcibilità del danno parentale per morte del congiunto anche alla convivente della madre biologica di un ragazzo deceduto in un incidente stradale. La sentenza anticipa, nei fatti, il riconoscimento delle unioni gay e l'adozione per le coppie omosex.

Il 2 marzo scorso, il Tribunale di Reggio Emilia ha riconosciuto, per la prima volta, la risarcibilità del danno parentale per morte del congiunto anche alla convivente della madre biologica di un ragazzo deceduto in un incidente stradale. La fattispecie: Tizio e Caia si sposano e, dopo cinque anni dalla nascita del figlio Sempronio, si separano. Caia inizia una relazione omoaffettiva con Livia, con la quale va a convivere insieme a Sempronio. Purtroppo, all’età di diciotto anni, Sempronio muore in un incidente.
I genitori, i nonni ed anche Livia si rivolgono al Tribunale per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale da perdita parentale. Nonostante la contestazione di infondatezza (Livia non è parente di Sempronio) sollevata dalla compagnia assicurativa del proprietario del veicolo che aveva causato l’incidente, il Tribunale riconosce anche alla donna la somma di oltre € 200.000,00 proprio a titolo di risarcimento per danno parentale.
Ma che cosa è il danno parentale? É il pregiudizio che subiscono gli stretti congiunti di una persona a causa della sua morte per fatto illecito: esso si concretizza nel dolore di «non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter più fare ciò che per anni si è fatto».
Dunque, se solo i congiunti hanno diritto al risarcimento di questo danno, in quanto lesi nell’interesse all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci ed alla scambievole solidarietà tipica della vita familiare, perché il giudice accoglie la domanda di Livia? Perché esso, dopo avere ripercorso l’evoluzione giurisprudenziale italiana in materia di tutela del danno da lesione della vita parentale, finisce per “applicare” le pronunce Cedu secondo cui anche le coppie omosessuali sono famiglia.
Nel 2002 le Sezioni Unite della Cassazione avevano precisato che sono vittime secondarie, con diritto al risarcimento del danno, tutte quelle persone che sono in «una situazione qualificata dal contatto con la vittima che normalmente si identifica con la disciplina dei rapporti familiari, ma non li esaurisce necessariamente, dovendosi anche dare risalto a certi particolari legami di fatto». E che nel caso di specie Caia, Livia e Sempronio avessero costituito «un nucleo familiare di fatto caratterizzato dall’affettività, dalla coabitazione e dalla rassicurante quotidianità della vita familiare» è emerso dall’istruttoria espletata, ove più persone hanno testimoniato che, dopo la separazione dei genitori, Sempronio aveva instaurato un forte legame affettivo con Livia al punto che, in più occasioni, l’aveva definita «seconda madre».
Non solo, Livia «lo aiutava nella gestione dei compiti e della vita familiare» e Sempronio «ubbidiva a (Livia) che si comportava come una madre nel senso che gli chiedeva di rispettare degli orari e lui la rispettava». Peraltro, anche la consulenza tecnica medico legale d’ufficio, effettuata su Livia, aveva evidenziato che «il (suo) rapporto interpersonale con il figlio della compagna era connotato da affettività-familiarità-attaccamento di natura materna».
A questo punto il giudice richiama la Cedu secondo cui siamo in presenza di una famiglia, indipendentemente dal sesso della coppia convivente, ogni qual volta la relazione di fatto è connotata da diversi elementi come «il tempo vissuto insieme, la qualità delle relazioni nonché il ruolo assunto dell’adulto nei rapporti con il bambino». Ebbene, tenuto conto che il rapporto di fatto instaurato tra Livia e Sempronio era di natura affettiva, oltretutto corroborato da una coabitazione stabile protrattasi per tredici anni; che Livia, non avendo figli naturali, aveva presumibilmente fatto un investimento totale affettivo su Sempronio; che Sempronio, al momento della morte, aveva solo diciotto anni (tanto minore è l’età della vittima, tanto maggiore sarà il periodo di tempo per il quale verosimilmente si protrarrà la sofferenza dei congiunti), il Tribunale ha accolto la richiesta risarcitoria della donna (co-madre?), liquidandole addirittura un importo maggiore di quello liquidato al padre naturale.
Dunque, il Tribunale, sul presupposto che basta il «contatto qualificato» con la vittima per avere diritto alla tutela giuridica del risarcimento per danno parentale, ha di fatto introdotto il principio che il rapporto genitore-figlio o comunque parentale è il frutto di una relazione interpersonale che prescinde dalla biologia e della genetica.