Uiguri, le accuse a Trump smentite dai fatti
Trump ha firmato la legge che protegge i diritti degli uiguri, minoranza musulmana perseguitata dal regime comunista cinese. Gli Usa si dimostrano più attivi dei Paesi islamici stessi nella difesa della libertà dei musulmani. Ma, secondo il libro dei retroscena di Bolton, Trump non è lo stesso che avrebbe approvato la persecuzione degli uiguri?
Il 17 giugno, Donald Trump ha firmato lo Uyghur Human Rights Act 2020 (legge per i diritti umani degli uiguri), dopo un iter parlamentare iniziato lo scorso autunno, su iniziativa del senatore repubblicano Marco Rubio. Si tratta della prima formalizzazione della politica di questa amministrazione sulla deportazione dei musulmani uiguri da parte del regime comunista cinese, una persecuzione che è sia etnica che religiosa. Non si tratta di un problema “di nicchia”, che può interessare solo pochi appassionati di minoranze e dei loro diritti, ma di una tragedia umanitaria epocale: almeno 1 milione di deportati in un arcipelago di 1000-1200 campi di “rieducazione”. È attualmente il singolo più grande crimine del regime comunista cinese. La notizia della legge americana firmata da Trump, contrasta visibilmente con le indiscrezioni secondo cui Trump avrebbe approvato l’internamento degli uiguri in Cina. Dove è la verità?
Intanto, cosa dice la nuova legge? È la “condanna delle gravi violazioni dei diritti umani perpetrate a danno dei musulmani turcofoni dello Xinjiang per chiedere la fine delle carcerazioni arbitrarie, della tortura e delle molestie nei confronti di queste comunità dentro e fuori la Cina”. Prevede sanzioni per chi commette violazioni della libertà religiosa, di torture e di altre crudeltà a danno dei cittadini turcofoni. Contiene misure per contrastare il lavoro forzato e condanna specificamente la piaga dei campi di rieducazione. Non riguarda, appunto, le persecuzioni nel solo Xinjiang, ma anche all’estero, dove la lunga mano degli apparati repressivi cinesi raggiunge anche i dissidenti fuggiti ed emigrati. La vicenda dell’attivista Serikzhan Bilash, arrestato l’anno scorso in Kazakistan perché difendeva i diritti umani in Cina, è significativa della rete che la Cina è riuscita a costruire anche all’estero, soprattutto assieme ad altri regimi autoritari. La persecuzione è, appunto, sia etnica che religiosa. Gli uiguri e gli hui (altra minoranza musulmana presente nella Cina centrale) sono perseguitati in quanto islamici, i popoli turcofoni (uiguri, kazaki e altri) sono perseguitati in quanto etnicamente estranei ai cinesi di etnia han, a prescindere dalla loro religione. La lista dei pretesti per la persecuzione è quella tipica delle situazioni pre-genocidio: i popoli che costituiscono un corpo estraneo vengono additate collettivamente come fiancheggiatrici di nemici esterni (dei terroristi islamici, in questo caso), della criminalità e di tendenze separatiste.
La legge statunitense, benché difficilmente ponga fine alle deportazioni, per lo meno dimostra che la prima potenza occidentale non ignora i crimini del regime comunista cinese e permetterà di applicare sanzioni per chi li commette. Può essere un precedente utile per altre leggi simili a protezione di altre minoranze perseguitate in Cina, fra cui i cristiani.
Due sono gli aspetti che dovrebbero balzare all’occhio: quando si tratta di proteggere una minoranza musulmana, gli Usa si dimostrano più attivi rispetto ai Paesi islamici stessi, silenti su questo crimine. Gli Stati Uniti, nel nome della libertà religiosa, sono dunque più impegnati di chi dovrebbe agire per la difesa della ummah islamica. Questo dettaglio andrebbe ricordato da tutti, ogni volta che gli stessi governi islamici accusano i governi occidentali di “islamofobia” e chiedono sanzioni per punirla: la vera islamofobia (senza virgolette) del regime comunista di Pechino non è evidentemente una loro priorità. Questo doppiopesismo stride ancora maggiormente se si ricorda come, nel 2017, proprio l’amministrazione Trump fosse sotto accusa dei Paesi musulmani per il suo cosiddetto “muslim ban”, che altro non era che il blocco dei visti per persone provenienti da Paesi ad alto rischio, anche Paesi non musulmani nelle sue versioni successive.
L’altro aspetto rilevante è la distanza siderale fra l’approvazione, da parte di Trump, di una legge che protegge i diritti umani in Cina e le rivelazioni (in un libro fresco di pubblicazione: The Room Where it Happened) del suo ex Consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, secondo cui il presidente americano, in privato, fosse “pappa e ciccia”, con l’autocrate comunista cinese. Secondo Bolton, a margine del vertice del G-20 di Osaka, nel 2019, Trump avrebbe approvato la deportazione degli uiguri e avrebbe incoraggiato Xi Jinping ad andare avanti nella costruzione dei campi di rieducazione (“la cosa giusta da fare”). Un’accusa gravissima, da un dialogo ascoltato dal vivo attraverso la mediazione di interpreti, che contraddirebbe tutto quel che Trump sta facendo. O è piuttosto tutto quel che Trump sta facendo che è in contraddizione con tutto quel che emerge dal retroscena? Non è la prima volta che si nota questa contraddizione: in campagna elettorale, nel 2016, i conservatori accusavano Trump di essere stato un abortista fino a tempi recentissimi e dunque di essere estraneo alla causa pro-life, appoggiata solo per motivi di immagine e propaganda. Eppure, alla prova dei fatti, Trump è stato il presidente statunitense più attivo in assoluto in difesa del diritto alla vita. Ora l’accusa è simile: gli si rimprovera di non credere ai diritti umani degli uiguri in Cina. E però è il presidente che, più di tutti gli altri capi di Stato, si sta battendo per la loro difesa. Quindi, cosa è più importante? I retroscena o le firme sulle leggi?