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Ucraina nell'Ue, un'ammissione di sconfitta a nostre spese

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L'avvio dei negoziati dell'Ucraina porterà in Ue a una situazione di totale assistenza, con oneri fiscali maggiori imposti sugli europei. Le scelte sbagliate del bellicismo bideniano saranno pagate, come già sulle forniture energetiche, in primo luogo da noi.

Editoriali 18_12_2023

L'avvio dei negoziati per l'adesione dell'Ucraina all'Unione europea da parte del Consiglio europeo rappresenta una mossa tattica (varata in evidente connessione con gli Stati Uniti e la Nato) il cui significato effettivo è molto diverso da quello propagandistico proposto dalla leadership di Kiev e dai governi dei principali paesi del Vecchio Continente schierati al suo fianco.

Volodymyr Zelensky ha parlato di una “grande vittoria” per il popolo ucraino e per tutta l'Europa. E i commentatori euro-atlantisti più entusiasti e militanti nei media occidentali hanno enfatizzato la notizia come se essa rappresentasse una risposta decisiva all'invasione russa (anche sottolineando la caduta del veto finora opposto dal premier ungherese Orbàn), e ancor più, oggi, un modo per controbilanciare efficacemente le resistenze del Congresso statunitense a maggioranza repubblicana a continuare a fornire aiuti finanziari all'Ucraina.

Ma la realtà, come quasi sempre accade dall'inizio del conflitto, è molto diversa dalla propaganda e dalla narrazione ufficiale.

Innanzitutto, l'inizio del percorso per l'ingresso nell'Unione per il momento è poco più di un atto simbolico e di una dichiarazione d'intenti. Il processo verso l'adesione durerà sicuramente molti anni, e attualmente Kiev è molto lontana dal soddisfare molte tra le condizioni fondamentali richieste. Peraltro, il semplice annuncio del suo inizio non può in alcun modo influenzare l'andamento della guerra, o costituire un disincentivo di alcun genere alla continuazione dell'invasione russa. Esso può solo avere un valore psicologico, confermando la perdurante volontà da parte dei paesi dell'Unione di continuare a sostenere l'Ucraina, non abbandonandola alla sfera di egemonia di Mosca.

In secondo luogo, la mossa del Consiglio europeo assume, proprio rispetto alle sorti della guerra, una valenza implicita ben diversa da quella apparente, e molto meno rassicurante per Zelensky e l'attuale leadership ucraina. Come è ovvio, infatti, il paese ex sovietico potrebbe entrare nell'Ue soltanto in una situazione in cui i suoi confini fossero assolutamente certi e internazionalmente riconosciuti: esigenza primaria tanto più valida per una eventuale adesione alla Nato, che proprio per questo finora è rimasta alla stregua di una pura ipotesi. Ma allo stato attuale delle cose sul campo di battaglia ci sono ben poche probabilità che il territorio dell'Ucraina si ricostituisca nella sua integrità precedente il conflitto, e anzi precedente al 2014, inclusiva del Donbass e della Crimea.

La tanto sbandierata controffensiva della scorsa primavera-estate si è risolta in un sostanziale fallimento, infrangendosi contro le ferree linee di difesa russe, con un costo ulteriore di enormi perdite sia umane che materiali, in prospettiva sempre meno compensate dal supporto statunitense e occidentale (che comincia, appunto, a vacillare per crescente sfiducia e per crescente insofferenza delle opinioni pubbliche, a partire proprio da quella americana), e anzi si fanno sempre più frequenti i tentativi di contro-controffensiva da parte russa. Laddove è invece chiaro che Mosca è preparata a sostenere una guerra di posizione e di logoramento come questa anche per periodi molto lunghi, che le risorse sia economiche che demografiche a tale scopo non le mancano, che l'illusione occidentale di un suo collasso economico a causa delle sanzioni è da accantonare definitivamente, e che soprattutto la leadership di Vladimir Putin, eliminata brutalmente la fronda della Wagner di Prigozyn, è più salda che mai, e sfocerà in tutta probabilità in un nuovo mandato presidenziale.

Insomma, annunciare oggi l'inizio delle trattative per l'adesione di Kiev all'Ue significa praticamente dare per scontato che lo stato che fra cinque o dieci anni entrerà nelle istituzioni comunitarie non sarà certo quello diventato indipendente nel 1991, ma sarà uno stato più piccolo, ridimensionato, che nel frattempo avrà dovuto non soltanto “congelare” il conflitto grosso modo secondo l'attuale linea del fronte, ma siglare un trattato di pace ufficiale con i russi, accettando la divisione tra la sua parte che tende politicamente verso Occidente e quella che preferisce rimanere nell'orbita “imperiale” russa.

Quell'annuncio non deriva allora dalla speranza tangibile di una vittoria ucraina, ma appare al contrario come la realistica previsione di una sua sconfitta, per quanto parziale, e come il tentativo di limitarne i danni, dal punto di vista occidentale, creando quanto meno la cornice per l'incorporazione nel proprio sistema di alleanze e di rapporti politici ed economici di una parte del suo territorio originario. Un tentativo che va nello stesso senso della previsione del funzionario della Nato Stian Jenssen trapelata l'estate scorsa: quella di una soluzione della guerra fondata, in prospettiva, su uno scambio tra annessione russa di Donbass e Ucraina e adesione della parte del paese rimasta in mano a Kiev all'Alleanza occidentale; poi in parte smentita, ma evidentemente rivelatrice della visione disincantata che i vertici militari e politici statunitensi coltivano da tempo sulle sorti del conflitto.

Questa evidente tendenza, oggi ulteriormente rafforzata, chiamerebbe in causa innanzitutto la responsabilità di chi ha più spinto, per due anni, il pedale dell'acceleratore sulla guerra, veicolando l'idea che l'Ucraina potesse vincerla e la Russia crollasse sotto i colpi della compatta reazione occidentale, piuttosto che cercare di disinnescarla al più presto attraverso una soluzione diplomatica: ossia Joe Biden e la sua amministrazione.

Ma il presidente statunitense non sembra avere alcuna intenzione di ammettere di aver sbagliato totalmente strategia, nonostante lo scacco attuale e la reazione a catena di innalzamento della tensione provocata dalla contrapposizione radicale con Mosca e i paesi che continuano ad avere con essa rapporti su altri fronti, come quello mediorientale, con le conseguenze drammatiche che sappiamo per la sicurezza di Israele. Al massimo egli è disposto a cercare un compromesso con l'opposizione interna su una limitazione del supporto a Kiev, cercando di assicurarsi la rielezione, e rimandando il momento dell'inevitabile redde rationem. E contemporaneamente cerca di scaricare il più possibile i costi delle sue scelte rovinose sugli alleati europei, imponendo loro crescenti spese in armamenti e aiuti economici per l'Ucraina.

Ora l'avvio dei negoziati per l'adesione all'Ue di Kiev si inserisce proprio in questo solco, incoraggiato da Washington pro domo sua. Se e quando l'Ucraina entrerà nell'Unione, infatti, essa verserà in condizioni materiali ed economiche talmente disastrose da essere, ancor più di altri stati esteuropei, completamente dipendente dagli aiuti comunitari, e la sua entrata imporrà un imponente e lungo impegno finanziario, che ricadrà naturalmente sui paesi che sono maggiori contributori al bilancio comune, tra cui l'Italia.

Insomma, l'Ucraina diventerà un paese totalmente assistito, con oneri fiscali sempre maggiori imposti a tale scopo sui cittadini europei, che rappresenteranno una zavorra ulteriore – oltre le altre autoprocurate come la “riconversione” animata dai deliri apocalittici sul clima – alle possibilità di crescita del continente. Le scelte sbagliate del bellicismo bideniano saranno pagate, come già sulle forniture energetiche, in primo luogo da noi.