Uccisione di Regeni, non ci sono risposte facili
Le circostanze della morte dello studente italiano sono tutte da chiarire. Ed è sospetto che in Europa si sia puntato subito il dito contro il "tiranno" El Sisi. Tutto è possibile ma certamente i servizi segreti non commetterebbero mai l'errore di uccidere uno straniero.
Non è facile commentare la morte di Giulio Regeni per chi come me ama, conosce e ha vissuto l’Egitto in tutte le sue contraddizioni e difficoltà, per chi come me ha la passione della ricerca in e su quel paese. Non è facile commentare la morte di Giulio Regeni perché poteva essere mio figlio, un mio studente, un giovane collega nell’accademia o semplicemente un malato d’Egitto proprio come me. Sin dal giorno in cui è stata annunciata la sua scomparsa, mi sono posta interrogativi e ho cercato di darmi risposte.
Il 25 gennaio, la data in cui si sono perse le tracce di Giulio, non era un giorno qualsiasi: è la ricorrenza delle proteste che nel 2011 hanno portato alla fine dell’era Mubarak e hanno acceso la speranza della transizione verso la democrazia. Tuttavia il 25 gennaio non rappresenta ancora per l’Egitto una ricorrenza fatta solo di celebrazioni e festeggiamenti per la fine del regime. È una data simbolo che, dopo l’allontanamento di Mohammed Morsi e l’avvento al potere di Abdel Fattah El Sisi, vede da un lato l’opposizione, ovverosia i Fratelli Musulmani e altri gruppi armati e non, organizzare manifestazioni e creare disordine, e dall’altro la polizia e gli apparati di sicurezza arginare tutto questo onde evitare che il fragile equilibrio egiziano venga messo ulteriormente a repentaglio.
Ed è questo fragile equilibrio interno, unitamente a quello che riguarda il fronte esterno, ad essere probabilmente all’origine della tragica morte di Giulio. Sono stati scritti fiumi d’inchiostro su chi fosse Giulio: un ricercatore e giornalista che si occupava di temi scottanti quali la libertà di stampa e i sindacati indipendenti, o forse un improbabile agente dei servizi segreti. Notizie di una morte lenta, di torture a seguito di un arresto da parte della polizia a causa delle sue amicizie scomode.
Vorrei per un istante dimenticare quanto è stato scritto e ragionare con la mia conoscenza trentennale dell’Egitto e i miei recenti soggiorni al Cairo. Chi ha vissuto l’Egitto durante l’epoca Mubarak non può non ammettere che la sicurezza garantita da El Sisi, nonostante tutti gli sforzi, non ha nulla a che vedere con il passato. Una sicurezza che viene garantita attraverso una lotta quotidiana contro il terrorismo e la micro-criminalità e una povertà inarrestabile che purtroppo continua ad alimentarli. Una sicurezza che viene garantita anche con misure estreme frutto del terrore di un attentato o di un benché minimo tentativo di dissenso.
C’è un equilibrio precario a livello sociale che si assomma all’equilibrio ancor più precario dovuto a un’opposizione reale frammentata e poliedrica che va dal sindacalista indipendente, di cui si occupava Regeni, all’attivista politico che vorrebbe riportare Morsi al potere; dal simpatizzante della Fratellanza al terrorista affiliato all’ISIS o a un altro gruppo jihadista. Oppure a una presunta opposizione che vede il governo egiziano e le istituzioni ad esso legate condannare a tre anni di carcere la poetessa Fatima Naoot per avere criticato lo sgozzamento dei montoni durante la festa del sacrificio o ancora impedire l’ingresso in Egitto alla docente universitaria tunisina Amel Grami per essersi espressa sull’arresto di alcuni omosessuali nel suo paese.
L’Egitto oggi vive una pericolosa schizofrenia tra desiderio di guardare avanti e traghettare verso una “riforma rivoluzionaria dell’islam”, ma soprattutto verso la democrazia, e il terrore di cadere in un vortice mortale della via senza ritorno e del caos.
Il Cairo è il cuore e il simbolo di questa schizofrenia, di questa confusione istituzionale e sociale. Le strade del Cairo non sono più sicure e muoversi non è più così semplice e immediato come in passato quando la metropolitana era un luogo tranquillo e percorrere le vie della capitale, al centro e in periferia, non metteva paura. Tutto questo Giulio Regeni lo sapeva bene, non poteva non saperlo, come forse sapeva che gli ambienti che frequentava non erano ben visti. Non lo conoscevo, ma nessuno che conosca le dinamiche egiziane contemporanee avrebbe sentito a pelle il pericolo in arrivo. Per questo scriveva sul Manifesto usando uno pseudonimo? Forse.
Tuttavia come dimostra il caso dell’accademica tunisina, una persona non grata non entra in Egitto, non supera la frontiera. Un cittadino egiziano sospettato di tramare contro il governo potrebbe correre il rischio di essere arrestato e di non essere trattato con metodi giusti. Difficile però che questo avvenga nei confronti di un cittadino italiano o straniero in generale. Quanti giornalisti free-lance si trovano in Egitto e non scrivono belle parole su El Sisi? Tanti.
Un unico dubbio. Il ricordo di quando mi recai, nel 2004, nel quartiere popolare di Embaba, denominato talvolta dai cairoti “la repubblica islamica di Embaba” per la presenza di elementi conservatori. Invitata da amici con i quali mi intrattenevo in egiziano, appena giunti con l’auto davanti casa il mio ospite iniziò a parlarmi in inglese per giustificare il fatto che io non indossassi il velo in quanto non musulmana. Probabilmente Giulio parlava egiziano, frequentava egiziani e il suo aspetto, barbetta inclusa, poteva confondere chiunque ed essere scambiato, in un tragico scherzo del destino, per un altro o per un anonimo amico di nemici.
Uno scambio di persona? Al Cairo tutto è possibile in mezzo a più di venti milioni di persone ingestibili dalla polizia e dalla sicurezza. I servizi segreti egiziani sono rinomati per l’efficienza e per sapere tutto quel che va saputo e certamente non avrebbero commesso l’errore di uccidere un italiano, un cittadino di un paese amico. In ultima istanza è curioso osservare come negli ambienti vicini alla Fratellanza, non solo in Egitto, ma soprattutto in Europa, il dito sia stato puntato immediatamente sul “tiranno” El Sisi.
Credo che il rispetto di Giulio Regeni debba imporre un silenzio stampa in attesa delle indagini e di un chiarimento sull’accaduto. Idee complottistiche, accuse e tiri incrociati non porteranno a nulla, soprattutto alla famiglia che ha perso un figlio troppo presto.