Tutti al "grande gioco" della Siria
Tutti d'accordo nel far fuori Assad, ma non c'è un piano per una leadership alternativa. E per Londra e Parigi c'è il sospetto che la scelta sia condizionata dai grossi investimenti da parte delle monarchie arabe, che vogliono un futuro fondamentalista.
Quasi tutti d’accordo, arabi e occidentali, nel far fuori Bashar Assad pur nella folle consapevolezza di non avere una leadership alternativa da porre alla guida del Paese. I movimenti aderenti al Consiglio Nazionale Siriano, dominato dai Fratelli Musulmani, non esprimono forze politiche credibili e sono antagonisti dei gruppi jihadisti e qaedisti che respingono ogni apertura alla democrazia e sognano un Califfato in Siria. I vecchi partiti di opposizione laica e socialista sono stati indeboliti dalla guerra civile mentre nessuno sembra rendersi conto che le comunità cristiana e scita-alauita, tra le principali vittime dei massacri compiuti dai ribelli, non hanno di fatto rappresentanza né dignità tra gli insorti.
Uno scenario che ricorda il Consiglio nazionale di transizione libico rivelatosi incapace dopo la morte di Gheddafi di controllare il Paese e generare forze politiche in grado di esprimere credibilità. Il tracollo di Assad rischierebbe quindi di trasformare la Siria in un’altra Somalia o un’altra Libia, Paesi feudalizati dominati da gruppi d’interesse, bande armate, fuorilegge e signori della guerra che rispondono a sponsor e interessi esterni.
Impossibile che i “fans” occidentali della guerra non se ne siano resi conto. Eppure l’Arabia Saudita e buona parte degli emirati del Golfo vogliono rovesciare Assad con l’obiettivo di evitare una deriva democratica che rischierebbe di dilagare anche nella Penisola arabica insidiando con pretese di elezioni e diritti civili le ricche monarchie petrolifere. Per questo le milizie islamiste ricevono ingenti aiuti dal Golfo promettendo di imporre la sharia a un Paese che negli ultimi decenni ha subito una dittatura dura ma laica. Non è un caso che in Egitto i sauditi abbiano sostenuto i salafiti, il movimento più conservatore sul piano sociale religioso e oggi assistano i militari .
Dopo l’abdicazione del vecchio emiro del Qatar, Sheikh Hamad bin Khalifa al-Thani, che da poche settimane ha lasciato il trono al figlio Sheikh Tamim bin Hamad al-Thani sembrano smorzarsi le tensioni che opponevano il piccolo Stato ai sauditi. Sponsor finanziario e supporter politico dei fratelli Musulmani, il Qatar ha investito sull’Egitto di Mohamed Morsi e su Hamas ma sembra aver perso la partita (e un sacco di miliardi). Non è forse una coincidenza che i militari del Cairo si siano decisi a rovesciare il governo della fratellanza musulmana dopo il cambio della guardia a Doha, avvenuto il 25 giugno. Il giovane al Thani, appena 33 anni, sembra essersi allineato agli altri stati della Penisola Arabica accettando senza reazioni di rilievo la rimozione di Morsi.
A sostenere i Fratelli Musulmani in Siria sono rimasti la Turchia e gli Stati Uniti, Paesi vicini anche ai disertori dell’Esercito siriano libero (Els) ancora privo di una linea politica ben definita. Se pare naturale che Ankara punti a estendere la sua influenza sulla Siria come trampolino per approfittare delle crisi arabe e penetrare dopo cento anni nei vecchi possedimenti ottomani, la posizione e gli interessi dei Paesi occidentali nel sostenere i ribelli sono meno chiari.
Puntando a condurre operazioni limitate e a non voler rimuovere il regime, gli Stati Uniti ammettono implicitamente di volersi limitare a ingigantire, non a risolvere, il conflitto siriano perseguendo ormai in modo palese il grande disegno di destabilizzare tutta l’area energetica che va dal Nordafrica al Medio Oriente fino all’Asia Centrale. Dopo quanto è accaduto per iniziativa statunitense in Libia ed Egitto pare assurdo continuare a definire inadeguata o inconsistente la politica estera di Obama. La Casa Bianca ha le idee molto chiare e le persegue con linearità e pervicacia seminando il caos in una vasta area di cui gli States non hanno più bisogno in virtù della raggiunta autonomia energetica ma che resterà indispensabile ai competitor economici di Washington tra i quali noi europei.
Se le guerre si fanno per interesse, quale vantaggi abbiamo perseguito attaccando la Libia di Gheddafi e quali conseguiremo con un blitz sulla Siria che rischia di infiammare tutta la regione? L’unica ragione in grado di spiegare la determinazione con la quale Londra e Parigi vogliono la guerra ad Assad (come vollero quella a Gheddafi) è che gli investimenti per decine di miliardi effettuati di recente dalle monarchie del Golfo in Francia e Gran Bretagna abbiano influito non poco nella politica estera di quelle che un tempo furono le maggiori potenze coloniali e oggi rischiano di diventare “mercenari” al soldo dei sovrani arabi.
Come hanno evidenziato molti analisti scatenare la guerra senza una strategia né un progetto politico significa solo portare il caos in Siria e in tutta la regione. Berlino, che da molti anni dispone di un’efficiente rete d’intelligence in Siria e Libano, ne è consapevole e si oppone alla guerra. Come l’Italia, preoccupata anche per gli oltre mille caschi blu schierati nel sud del Libano. La Russia, che sostiene Assad ma punta al negoziato con l’opposizione non jihadista per gestire un cambio di regime senza violenze, difende pienamente e con energia i suoi interessi.
Damasco è da decenni un cliente e un alleato di Mosca ma i russi sono consapevoli che una volta caduta la Siria l’ondata di penetrazione islamista si concentrerà sul Caucaso e sulle repubbliche ex sovietiche abitate da musulmani e verso i Balcani.
Non è un caso che i sauditi abbiano cercato di comprare Vladimir Putin durante l’incontro del 31 luglio tra il presidente russo e il principe Bandar bin Sultan, a capo dell’intelligence saudita. Almeno secondo una ricostruzione non smentita diffusa dal britannico Telegraph. Il principe avrebbe offerto a Putin un accordo di cartello per mantenere alto il prezzo del greggio e favorire così l’economia russa in cambio dello stop agli aiuti e al sostegno politico internazionale a Bashar Assad. Bin Sultan avrebbe anche promesso di salvaguardare la base navale russa di Tartus anche dopo la caduta del regime di Assad ma avrebbe anche palesato il ischio di possibili attacchi di terroristi ceceni alle Olimpiadi invernali di Sochi in mancanza di un accordo. “Posso garantirvi di proteggere le Olimpiadi invernali del prossimo anno - avrebbe detto Bandar - i gruppi ceceni che minacciano la sicurezza dei giochi sono controllati da noi”.