ANNIVERSARI
Turoldo e il mito del profeta inascoltato
A vent'anni dalla morte il religioso è stato ricordato nei soliti modi lontani dalla realtà: fu un religioso stimato e un poeta più volte premiato. Niente a che vedere con la retorica del prete ribelle e perseguitato dalla Chiesa.
Cultura
25_02_2012
È stato ricordato da molti organi di stampa la figura e l’opera di padre David Maria Turoldo, religioso Servita, a vent’anni dalla morte, avvenuta a Milano il 6 febbraio 1992. Nel corso delle esequie il cardinale Carlo Maria Martini, che aveva consegnato a padre Turoldo, pochi mesi prima della morte, il primo "Premio Giuseppe Lazzati", ebbe a dire che «la Chiesa riconosce la profezia troppo tardi».
Trovo assurda questa maniera di elogiare un fedele defunto denigrando l’autorità ecclesiastica (Martini, ex arcivescovo di Milano si riferisce ai suoi predecessori e anche alla Santa Sede), la quale non avrebbe saputo riconoscerlo e ascoltarlo come “profeta”, ossia come maestro della fede e giudice della condotta pastorale di vescovi e Papi. Si tratta di un’assurdità, dal punto di vista teologico, perché il biblista Martini applica abusivamente alla comunità cristiana, che è gerarchica e carismatica allo stesso tempo (dice la Scrittura: i vescovi, con a capo il Papa, «sono posti dallo Spirito Santo a reggere la Chiesa»), le categorie storiche dell’Antico Testamento, quando i profeti inviati da Javeh erano talvolta disconosciuti e osteggiati dai capi del popolo di Israele. Con la Nuova alleanza, il carisma profetico sussiste, ma è semplicemente la partecipazione dei fedeli, in grado e in modi diversi, al munus docendi di Cristo, il Verbo Incarnato, che è il solo Maestro. E solo nei legittimi Pastori il carisma della profezia è garantito da Cristo stesso, il quale assicura alla Chiesa docente la “infallibilitas in docendo”.
Se la Chiesa riconosce in alcuni fedeli (ad esempio, nei fondatori di ordini e congregazioni religiose) dei particolari carismi è perché constata che essi sono utili alla santità di tutto il Corpo Mistico; se poi non approva i progetti e le iniziative di qualcun altro, ciò non vuol dire che essa sia sorda ai richiami di un “profeta”; si tratta piuttosto di giudizi e di decisioni prudenziali che non godono della prerogativa dell’infallibilità ma che nemmeno possono essere giudicati da altre istanze private che si arrogano questa infallibilità. Dicevo che, dal punto di vista teologico, si tratta di assurdità, perché pretendono di costruire un’ecclesiologia arbitraria, dove l’opinione (più o meno plausibile, e quindi sempre criticabile) viene spacciata per dogma, mentre il dogma è considerato come se fosse una mera opinione (da criticare perché recepita come espressione di un’ideologia avversa).
È una dialettica che ho illustrato nel mio trattato su Vera e falsa teologia, ma qualunque fedele cristiano adeguatamente formato è in grado di smascherare coloro pretendono di imporre le proprie posizioni ideologiche come se fossero una rivelazione diretta di Dio alla quale dovrebbero adeguarsi anche i Pastori della Chiesa. La commemorazione di Padre David Maria Turoldo è stata l’occasione per ripresentarlo come un’icona del profetismo progressista, ossia di quella “Chiesa del dissenso” che si rivolge all’opinione pubblica cattolica con false ragioni teologiche malamente mascherate dai clichés retorici.
La retorica è l’arma principale delle ideologie. È per questo che, a partire dagli anni del Concilio Vaticano II, certa religiosità cattolica “di sinistra” si è costruita i suoi idoli, i suoi oggetti di culto e i suoi riti. Ai riti cattolici “di sinistra” è essenziale presentare i propri esponenti non solo come “profeti”, cioè come autentici araldi del vangelo, ma anche come “martiri”, come “preti scomodi” che sono stati vittime della repressione da parte del potere ecclesiastico. Come già padre Balducci e don Milani e oggi don Gallo (ma l’elenco è lungo, e comprende anche l’ex abate di San Paolo, dom Franzoni), anche la figura e l’opera (soprattutto poetica) di padre Turoldo sono stati utilizzati dalla propaganda ideologica. Le sue iniziative pastorali e culturali sono state presentate come se questo buon religioso fosse davvero soltanto la “voce degli oppressi”, un paladino della lotta di classe all’interno della società civile e della comunità ecclesiale.
Antonio Borrelli, in Santi, beati e testimoni, ha scritto di lui: «Uomo di grande sensibilità, combatté con sdegno le ingiustizie, rifiutando ogni compromesso con il potere; gli aggettivi che meglio lo qualificarono furono, “ribelle” (nel senso nobile del termine), “impetuoso” (nelle sue reazioni ed atteggiamenti), “drammatico” (per le sue vicissitudini), “fedele” (a Dio, alla sua vocazione, alla sua origine)». Già il fatto di distinguere tra fedeltà a Dio e fedeltà alla propria vocazione e alle proprie origini è nonsenso teologico. Ma per la retorica tutto fa brodo.
In effetti, le origini di Giuseppe Turoldo (così si chiamava prima della professione religiosa) sono un tutt’uno con la sua dedizione al servizio di Dio nella Chiesa di Cristo. Nono di dieci fratelli, nacque a Coderno, nel Friuli, da una famiglia contadina. A soli tredici anni fece il suo ingresso nel convento dei Serviti a Isola Vicentina, nel 1935 emise la sua prima professione religiosa e nel 1938 pronunciò i voti solenni. Nel 1940, dopo l’ordinazione presbiterale, si trasferì a Milano, dove l’arcivescovo cardinal Ildefonso Schuster gli affidò la predicazione domenicale nel Duomo. Durante l'occupazione nazista di Milano (8 settembre 1943 - 25 aprile 1945) collaborò con la resistenza antifascista, creando e diffondendo dal suo convento il periodico clandestino l'Uomo. Completò poi i suoi studi in filosofia all'Università Cattolica di Milano, dove si laureò nel 1946 con Gustavo Bontadini, il quale lo volle poi suo assistente alla cattedra di Filosofia Teoretica.
Il suo impegno a cercare un confronto di idee deciso e talvolta duro, ma sempre dialettico, si tradusse nella fondazione, col suo fedele collaboratore fra' Camillo De Piaz, del centro culturale “Corsia dei Servi”. Fu uno dei principali sostenitori (anche con un’ingente raccolta di fondi) del progetto “Nomadelfia”, il villaggio nato per accogliere gli orfani di guerra «con la fraternità come unica legge», fondato da don Zeno Saltini. Fondò una piccola comunità, "Casa di Emmaus", presso la quale istituì il Centro di studi ecumenici "Giovanni XXIII", aperto anche agli islamici e agli atei dichiarati. Nel 1968 curò una prima edizione degli scritti di Benedetta Bianchi Porro.
Nel 1974, in occasione del referendum abrogativo della legge sul divorzio, si schierò per il "no" a fianco dei radicali e dei comunisti e contro i cattolici del “sì”. Ebbe sempre molti amici tra gli intellettuali di sinistra (come Pier Paolo Pasolini, friulano e poeta come lui, e il rettore di Urbino, Carlo Bo), tra i politici (come il sindaco di Firenze Giorgio La Pira) e tra gli ecclesiastici più in vista (come l’attuale cardinal Gianfranco Ravasi). Tra il 1948 e il 1952 si rese noto al grande pubblico con due raccolte di liriche: Io non ho mani (che gli valse il Premio letterario Saint Vincent) e Gli occhi miei lo vedranno.
La sua fu, insomma, la vita di un religioso stimato, di uomo di cultura politicamente impegnato, di un poeta più volte premiato. Solo strumentalizzandola può presentarsi come la vita di un profeta inascoltato. Turoldo non poteva essere ed effettivamente e non fu un “profeta”: fu semplicemente un uomo di fede, con iniziative pastorali e proposte teologiche che qualcuno potrà giudicare positivamente (ma senza canonizzarle), mentre altri possono legittimamente criticarle. Io, ad esempio, nei discorsi di Turoldo vedo i limiti teologici di quel “biblicismo” che è stato esplicitamente stigmatizzato da Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et ratio. Come molti teologi del tempo egli riduceva la “Parola di Dio” non alla Rivelazione proposta infallibilmente dalla Chiesa ma alla sola Scrittura recepita con il “libero esame”, e quindi filtrata attraverso le precomprensioni suggerite dalle categorie ideologiche delle filosofie di moda. La più insidiosa di queste categorie filosofiche è quella hegeliana della negatività in Dio, assurdità logica che si ritrova spesso nel linguaggio dei pretesi “mistici” e anche in questi versi di Turoldo: «Dio e il Nulla – se pur l’uno dall’altro si dissocia… / Tu non puoi non essere / Tu devi essere, / pure se il Nulla è il tuo oceano».