Turchia al voto, fra censura e terrorismo
Tensione e terrore nelle elezioni generali in Turchia. La previsione è quella di una nuova vittoria degli islamici di Erdogan, ma anche il partito curdo Hdp potrebbe entrare in parlamento e rovinargli la maggioranza. Fra terrorismo, delitti, guerriglia con i curdi, censura dei media e milioni di profughi in movimento verso l'Europa, ecco come la Turchia si è preparata al voto.
Oggi, domenica 1 novembre, la Turchia torna al voto per le elezioni anticipate, dopo un’estate che più violenta non si può. La campagna elettorale è stata contrassegnata da morti misteriose, chiusure e arresti nel mondo dei media, il pericolo costante di un’esondazione della guerra siriana, la continua guerriglia nei territori curdi e dall’attentato più sanguinoso della storia recente turca. E’ un voto importante per i turchi, perché potrebbe segnare l’inizio di una nuova era politica: o il dominio, anche istituzionale, del partito islamico e del suo presidente, o la fine del suo quasi-quindicennio di successi elettorali. E’ importante anche per noi italiani ed europei in generale: è dalla Turchia che proviene la maggior parte degli immigrati che percorrono la rotta balcanica ed è proprio con il governo di Ankara che l’Ue tratta per arginare la crisi, promettendo in cambio aiuti economici e un rinnovato dialogo per l’accesso della Turchia in Europa.
Prima di tutto, il fatto stesso di aver indetto ad agosto delle elezioni anticipate, dopo il voto inconcludente del 7 giugno, è in sé una scelta molto controversa. Il partito islamico (Akp) del premier Davutoglu e del presidente Erdogan, mirava già allora a conquistare una maggioranza dei 2/3. Non l’ha conquistata, accaparrandosi appena il 41% dei voti e assistendo per la prima volta all’ingresso di un partito curdo, l’Hdp, nel parlamento: con il 13% dei consensi, non solo curdi, è riuscito a superare la proibitiva soglia di accesso fissata al 10%. La tensione con la nuova formazione è sicuramente la motivazione principale del fallimento di ogni accordo di governo e della decisione di andare di nuovo al voto. Ora l’obiettivo di Erdogan e Davutoglu è sempre lo stesso: una maggioranza qualificata, sufficiente anche a cambiare la costituzione in senso presidenzialista. La media degli ultimi sondaggi prima dell’apertura delle urne rileva un’intenzione di voto del 47%, in netto miglioramento rispetto al giugno scorso. Le previsioni per i partiti d’opposizione, però, non fanno dormire sonni tranquilli al premier e al presidente: l’Hdp è dato in crescita, potrebbe bissare il successo di giugno e superarlo. I partiti laici turchi, il Chp (socialdemocratico) e l’Mhp (nazionalista) dovrebbero aggiudicarsi, come da tradizione, il secondo e terzo posto rispettivamente. Se così fosse, gli islamici dell’Akp non avrebbero ancora la maggioranza qualificata. Come a giugno, tutto dipende dall’Hdp, se entra o meno nel Meclis, il parlamento di Ankara.
Anche per questo motivo, oltre che per la vicina e incombente guerra siriana, la campagna elettorale è stata contraddistinta da così tanta violenza, un terrorismo che ha colpito sia individui che masse, la cui matrice è ignota e mai rivendicata, oltre ad essere sicuramente multiforme. Non si sa come e chi abbia ucciso la giornalista britannica Jacky Sutton, della Bbc e direttrice dell’Insitute for War and Peace Reporting di Erbil (Kurdistan iracheno). Si occupava dell’Isis e del terrorismo islamico, è stata trovata impiccata in un bagno pubblico dell’aeroporto di Istanbul, il 19 ottobre. E’ morta in uno dei luoghi più affollati e sorvegliati della Turchia. Le telecamere che avrebbero potuto fornire qualche indizio in più, in quel momento “non funzionavano”. Chi la conosceva, parenti, amici e colleghi, afferma che non avesse assolutamente intenzione di suicidarsi, anche se il suicidio è la tesi prevalente nell’indagine della polizia turca. Il predecessore di Jacky Sutton, alla guida dell’Iwpr di Erbil, era stato ucciso da un’autobomba a Baghdad. Solo due settimane fa si erano tenuti i suoi funerali.
La tragica vicenda della Sutton costringe ancora una volta i turchi a porsi domande su quanto sia estesa la penetrazione del terrorismo islamico. La strage di Suruc, lo scorso luglio, è stata esplicitamente rivendicata dall’Isis. La strage di Ankara, dello scorso 10 ottobre, che con i suoi 120 morti è la peggiore nella storia turca recente, è tuttora rimasta senza rivendicazione. I curdi, le vittime principali, oltre a sindacalisti ed esponenti della sinistra turca, puntano il dito sul “doppio Stato”, cioè sui “servizi segreti deviati”. Si parla di strategia della tensione, esattamente come si faceva in Italia negli anni di piombo. Ma comunque ci si interroga, anche fuori da ogni logica complottista, su quale sia il ruolo del governo nella lotta contro l’Isis. E su quanto l’Isis sia presente nella stessa Turchia. Solo dopo la strage di Ankara la polizia ha messo mano seriamente al dossier terrorismo islamico e ha scoperto ben 18 campi di addestramento, nella sola area di Istanbul. Più di cinquanta terroristi o presunti tali sono stati arrestati, ma circa 5000 cittadini turchi, secondo una stima governativa, sono andati a combattere sotto le bandiere nere del Califfato.
L’Akp si presenta come unico antidoto, organizza in tutto il paese comizi contro il terrorismo, chiede una maggioranza solida per riportare sicurezza e ordine. E intanto i profughi siriani in territorio turco, quasi 2 milioni, potrebbero aumentare ancora dal momento che la guerra sta interessando soprattutto le regioni confinanti di Idlib e Aleppo. Le Nazioni Unite stimano che nel prossimo futuro almeno altri 30mila profughi dalla Siria cercheranno rifugio in Turchia meridionale. L'opinione pubblica non ha mai visto di buon occhio la presenza di così tanti arabi siriani sul proprio territorio, teme l'esportazione della guerra civile e del terrorismo. La battuta d'arresto subita da Erdogan nelle elezioni dello scorso 7 giugno è stata attribuita anche a questo malessere diffuso. Ed è un dato di fatto che da giugno ad oggi, i rifugiati e gli immigrati che hanno preso la via dei Balcani sono aumentati improvvisamente, inducendo l'Ungheria ad alzare il ben noto muro lungo il confine con la Serbia. In quest'ultimo mese, per contribuire a risolvere la crisi, il governo Davutoglu chiede soprattutto aiuti economici, un nuovo percorso per accedere all'Ue e continua a premere per l'istituzione di una fascia militare di sicurezza in Siria.
In Turchia la parola “terrorismo” non evoca tanto l'Isis quanto soprattutto i curdi. E l’Hdp viene spesso e volentieri accostato dalla stampa filo-islamica al Pkk (Partito dei Lavoratori Curdi). Le sue sedi, in tutto il paese, sono state attaccate da simpatizzanti del partito islamico e nazionalisti, riportando feriti e gravi danni. Contemporaneamente, con il Pkk è guerra aperta: sono già 2000 i morti fra i guerriglieri e 150 fra i soldati regolari, da fine luglio ad oggi, in appena tre mesi. Duemila morti, vuol dire il doppio di tutte le vittime (arabe ed ebree) provocate finora dall’Intifada in Israele. “Siamo a un bivio. La Turchia andrà verso un sistema di potere con un uomo solo e un regime oppressivo e dittatoriale oppure andrà verso la strada che porta alla democrazia”, dice nel suo ultimo appello Selahattin Demirtas, leader dell’Hdp. Anche molti turchi contrari a Erdogan hanno intenzione di votarlo. La minoranza curda è spaventata dall’azione militare nell’Anatolia orientale, dai metodi brutali impiegati dall’esercito, anche contro i civili, nella città di Cizre.
Due giornalisti britannici di Vice News, che coprivano la guerriglia turco-curda sono stati arrestati lo scorso agosto assieme al loro interprete. I due reporter sono stati rilasciati, ma il loro collaboratore, Mohammed Ismael Rasool, è ancora in prigione, con accuse di terrorismo, prive di fondamento e senza un vero processo. La pressione più dura, le autorità la stanno esercitando sul gruppo di media di proprietà di Fetullah Gulen, filosofo islamico e ricchissimo imprenditore, esule volontario negli Stati Uniti, ex sponsor di Erdogan poi divenuto uno dei suoi più acerrimi nemici politici. La polizia ha arrestato l’ex direttore del quotidiano Zaman, Ekrem Dumanli, poi lo ha rilasciato. L’accusa, per lui, era quella di essere un “golpista”. La settimana scorsa, l’ultima prima delle elezioni, il gruppo Koza Ipek, vicino a Gulen e proprietario delle tv Bugun Tv e Kanalturk e dei quotidiani Bugun e Millet, ha subito intimidazioni di Stato sempre crescenti: prima la holding è stata posta dalla magistratura sotto amministrazione controllata, poi la polizia ha ispezionato gli uffici amministrativi, infine, mercoledì, gli agenti hanno fatto irruzione negli studi televisivi, platealmente, in diretta. Da giovedì, i due quotidiani Bugun e Millet non sono più in edicola. Il 29 ottobre, lo stesso Gulen è stato inserito nella lista nera dei terroristi dal governo di Ankara. Se a tutto ciò si aggiungono anche l’aggressione al giornalista Ahmet Hakan Coskun (dopo una campagna denigratoria condotta dai media vicini all’Akp) e ben due attacchi alla sede del giornale Hurriyet, possiamo avere un’idea di cosa sia la “par condicio” alla turca, in vista delle elezioni.