Trump media l'accordo fra Israele ed Emirati
Annunciato l’accordo di normalizzazione delle relazioni diplomatiche fra Israele ed Emirati Arabi Uniti, raggiunto grazie alla mediazione statunitense. Si tratta certamente di un evento storico, considerando che gli Emirati sono il primo Stato arabo del Golfo che riconosce lo Stato ebraico
Ieri, giovedì 13 agosto, è stato annunciato l’accordo di normalizzazione delle relazioni diplomatiche fra Israele ed Emirati Arabi Uniti, raggiunto grazie alla mediazione statunitense. Si tratta certamente di un evento storico, considerando che gli Emirati sono il primo Stato arabo del Golfo a siglare un accordo con lo Stato ebraico e il terzo Paese arabo in assoluto, dopo Egitto e Giordania.
“Accordi di Abramo”, così è stata battezzata la normalizzazione dei rapporti fra Emirati e Israele, con riferimento al patriarca di giudaismo, cristianesimo e islam. Scherzando in conferenza stampa, il presidente Donald Trump ha detto che avrebbe voluto chiamarlo “patto di Trump”, ma che “i media non lo capirebbero”. Comunque è stato indubbiamente determinante il ruolo del presidente degli Stati Uniti, grazie al suo ascendente su Israele e al buon rapporto personale sia con il premier israeliano Benjamin Netanyahu che con i Paesi arabi del Golfo. Questi ultimi, storicamente, non avevano mai accettato il riconoscimento dello Stato ebraico, nel 1974 avevano partecipato alla serrata dell’Opec (che innescò la più celebre crisi petrolifera) come rappresaglia contro la vittoria israeliana nella guerra dello Yom Kippur e hanno lautamente finanziato l’Olp e i movimenti armati palestinesi. La scena è cambiata solo nell’ultimo decennio, soprattutto grazie alla paura del rinnovato espansionismo dell’Iran, che accomuna sia Israele che i Paesi (monarchici, arabi e sunniti) del Golfo che hanno sempre temuto la Repubblica islamica sciita. Il timore dell’Iran ha portato queste monarchie tradizionaliste a vedere in Israele, quantomeno, il minore dei mali.
L’amministrazione Trump, sin dal 2017, ha puntato subito sulle relazioni con i Paesi sunniti del Golfo, a partire proprio da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, soprattutto in chiave anti-iraniana. I rapporti si sono consolidati anche in chiave anti-Fratellanza Musulmana: Emirati e Arabia Saudita, in particolar modo, hanno posto il blocco al Qatar, che è il maggior sponsor arabo al movimento islamista (di cui fa parte anche Hamas, branca palestinese della Fratellanza, secondo il suo stesso statuto). Contemporaneamente, la stessa amministrazione ha rilanciato le relazioni privilegiate con Israele (che si erano raffreddate ai tempi dell’amministrazione Obama) soprattutto con lo spostamento dell’ambasciata degli Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo quest’ultima come capitale israeliana. Gli osservatori del Medio Oriente avrebbero scommesso che la scelta di Gerusalemme avrebbe alienato le simpatie dei Paesi arabi e causato lo scoppio di una nuova sollevazione palestinese. In realtà, l’accordo di ieri è proprio la dimostrazione che la politica estera di Trump ha avuto successo: ha intuito che i tempi fossero cambiati.
Negli ultimi due anni si erano già visti piccoli ma significativi segnali di distensione fra Israele e i Paesi del Golfo. L’ambasciatore degli Emirati a Washington, Otaiba, era infatti presente alla Casa Bianca, nel gennaio scorso, nel corso della presentazione del piano di pace per il Medio Oriente, un progetto politico considerato, a torto o a ragione, fortemente sbilanciato dalla parte di Israele. In maggio e in giugno, sempre gli Emirati avevano mandato aiuti ai palestinesi per la lotta al Covid, ma facendoli atterrare all’aeroporto israeliano Ben Gurion. Sono stati i primi due voli che hanno collegato i due Paesi. Nel 2019, il Dipartimento di Stato americano aveva organizzato incontri segreti fra Emirati e Israele per farli cooperare contro l’Iran, soprattutto nella condivisione di informazioni di intelligence. Le relazioni erano migliorate anche con altri Paesi arabi della stessa regione: Netanyahu si era recato in visita in Oman nel 2018, pur non stabilendo regolari relazioni diplomatiche. E nel luglio 2019, i ministri degli Esteri di Israele e Bahrein si erano incontrati a Washington.
Secondo il premier Benjamin Netanyahu, questo accordo “mostra il cambiamento drastico dello status di Israele nel Medio Oriente (…) Per decenni Israele è sempre stato presentato come un nemico, ma al giorno d’oggi molti Paesi ci vedono come alleati strategici”. La pace ha comunque un prezzo e Netanyahu rivela che Trump gli ha chiesto di congelare l’annessione dei territori della Cisgiordania a maggioranza ebraica, una mossa che doveva essere compiuta il 1 luglio. Netanyahu assicura che l’annessione è congelata temporaneamente, ma l’impegno resta. I palestinesi, comunque, non gli sono grati e attaccano a testa bassa anche gli Emirati, stando al primo comunicato rilasciato ieri dall’Olp, secondo cui l’accordo “premia l’occupazione israeliana delle terre palestinesi”. In teoria proprio questo accordo ha salvato i palestinesi, ma la classe dirigente dell’Autorità Palestinese preferisce procedere ad oltranza con la sua politica dei “no”.