Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Sant’Agnese da Montepulciano a cura di Ermes Dovico
LE PRIMARIE USA

Trump in ascesa, per il Gop è comunque un disastro

All'outsider repubblicano manca poco per la nomination. Ma il Grand Old Party farà di tutto per fermarlo. In ogni caso il destino è segnato in dramma: se anche il miliardario fallisse, gli elettori si scaglieranno contro i vertici che l'hanno ostacolato, pregiudciando così la sfida alla Clinton

Esteri 28_04_2016
Donald Trumpa

Il clou delle primarie statunitensi arriva di solito con il “Supermartedì”, la tornata elettorale d’inizio marzo che comincia a dare un’idea piuttosto definita di come sarà l’andamento generale. Così è stato anche quest’anno, quando il Supermartedì del 1° marzo ha fatto capire che in campo Repubblicano sarebbe stata una corsa contro il tempo da parte dei candidati conservatori per cercare di fermare il populista Donad J. Trump, cioè l’outsider capace di paralizzare e (politicamente) ricattare il Grand Old Party (GOP, l’altro nome del Partito Repubblicano) con un terzo circa dei voti popolari, e che sul versante Democratico sarebbe stata una lunga marcia di logoramento contro la superfavorita Hillary Clinton da parte del tenace socialista Bernie Sanders, l’insider deciso a vendere carissima la pelle ma ineluttabilmente destinato alla sconfitta.

Lunghe guerre di posizione, insomma, con alterni successi e nessuna esclusione di colpi che quest’anno hanno quindi di fatto depotenziato il peso classico del “Supermartedì” rimandando di continuo la resa dei conti. Adesso però i nodi sono arrivati al pettine e il voto espresso martedì 26 aprile si è trasformato nel “Supertuesday” de facto di quest’anno.

Si è votato in Pennsylvania, Maryland, Connecticut, Rhode Island e Delaware. Tra i Repubblicani Trump ha vinto ovunque superando sempre abbondantemente il 50% dei suffragi, e in due casi (Delaware e Rhode Island) toccando e persino oltrepassando il 60%. Alle sue spalle è giunto sempre secondo l’enigmatica Cenerentola di quest’anno, John Kasich, tranne in un caso (Pennsylvania) dove secondo è arrivato Ted Cruz. La Costa Orientale premia sempre poco i conservatori duri e puri.

Per effetto delle leggi elettorali vigenti in quegli Stati, Trump ha fatto man bassa dei delegati in palio, 105 su 111. Per i Democratici la Clinton ha vinto ovunque, tranne in un caso (Rhode Island), spartendosi con Sanders i delegati disponibili: 194 lei, 129 lui.

Il risultato è che i due leader, Trump e Clinton, si trovano rispettivamente ora a 390 e a 820 delegati di distacco dai secondi in gara (Cruz e Sanders), nonché a 287 e a 241 delegati dal traguardo della nomination presidenziale. Da qui al 7 giungo per i Repubblicani e al 14 per i Democratici, gli ultimi Stati che ancora debbono votare assegneranno con criteri diversi, proporzionali o maggioritari per i primi, sempre proporzionali per i secondi 502 e 1016 delegati rispettivamente. Ovvero, se anche Cruz (e a maggior ragione Kasich) e Sanders vincessero tutti i delegati ancora in palio non potrebbero più conquistare la nomination di partito.

Quindi l’8 novembre si sfideranno per la Casa Bianca Trump e la Clinton? Non è detto. Certamente il contendente Democratico sarà Hillary Clinton, ma in campo Repubblicano l’unica cosa per ora certa è che Cruz ha perso le primarie, ma che anche Trump può ancora perderle per 215 delegati. Quella di Cruz e di Kasich è ardua, ma non è una missione impossibile. Cosa che adesso chiarisce perché Kasich, che non ha mai avuto la minima possibilità di farcela, partito tardi a guadagnare delegati, non si è ritirato e men che meno lo farà ora.

Nel corso dei mesi la strategia del Partito Repubblicano è cambiata molte volte. Fissato l’obiettivo unico di battere Trump, sulle prime ha atteso per vedere chi fosse emerso come “papabile” tra Cruz, Jeb Bush e Marco Rubio. Quando Bush si è ritirato, il GOP ha atteso per vedere chi l’avrebbe spuntata tra Cruz e Rubio. Una volta uscito di scena Rubio, ha puntato sull’ultimo rimasto, Cruz, ma ha pure preparato il piano B, ovvero se non proprio quello di far ottenere la nomination a Cruz almeno quello di farla perdere a Trump.

Per questo da un lato ha lavorato all’alleanza tra Cruz e Rubio, che poi non c’è stata, e dall’altro ha tenuto pervicacemente in gara il convitato di pietra, ma efficacissimo come arma di distrazione di massa, Kasich, l’uomo dall’incarico speciale: sottrarre, nel nascosto, non visto, piccoli, piccolissimi voti a Trump in una maniera che al momento buono potrebbe persino valere più della coraggiosa sfida frontale lanciata da Cruz.

Tutto si giocherà in zona Cesarini. Se Cruz e Kasich riusciranno a sottrarre a Trump almeno 215 dei 502 delegati rimasti ancora da allocare, l’obiettivo sarà compiuto. Se non accadrà, il GOP avrà perso la battaglia con se stesso. In ogni caso, sarà un disastro. Se infatti il GOP perderà la sfida contro Trump, il fronte anti-progressista per la guida del Paese più potente del mondo verrà in novembre rappresentato da un non conservatore, dozzinale e demagogico, incapace di pronunciamenti chiari sui “princìpi non negoziabili”, privo di esperienza politica e invece ricco di fallimenti imprenditoriali, abile nel gonfiare le trombe e nel premere il ventre molle di una parte cospicua di americani.

Se invece il GOP riuscirà a fermare Trump alle primarie, in luglio si aprirà lo scenario inquietante della “Convenzione contestata” dove di fatto il voto popolare viene annullato dai professionisti di partito alla ricerca di una salvagente per definizione bucato, inimicandosi ovviamente Trump (e vabbè) ma soprattutto i suoi elettori (gravissimo) per presentarsi alle urne di novembre armati di una forchetta contro le divisioni corazzate della Clinton.

In campo Democratico, invece, i favori per Hillary (lo si comprende bene dall’indiscutibile plauso espresso con largo anticipo dai maggiorenti del partito) sono sempre stati fuori discussione. Il successo di Sanders rivela la crescita significativa di una fronda interna, una minoranza Dem capace di battere i pugni sul tavolo, ma ancora non d’impensierire seriamente, almeno fino a che il facoltoso e potente clan Clinton (in cui forse è stato cooptato pure Barack Obama), forte di molti vassalli, terrà le redini del partito.

Ora infatti la Clinton, dopo avere inclinato un poco all’estremismo sandersiano per tamponare l’emorragia dell’estremista Sanders, può tranquillamente ritornare alla sua politica di sempre. Vendere bene l’estremismo clintoniano anche nelle vie snob del centro e non solo negli slum delle periferie sandersiane. Probabilissimo che sarà lei il 45° presidente degli Stati Uniti d’America, e la notizia è pessima. In ogni caso, al GOP terremotato non resterà che la dura ricostruzione, resa ancora più difficile dalla repentinità e dalla proditorietà con cui il sisma Trump ha abbattuto un edificio che pareva solido, ben avviato e destinato a tutt’altro. Come se qualcuno ci avesse messo la coda, ma questa è un’altra storia.