Trump ha subito due attentati. Ma è lui accusato di violenza
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Media (e procure) scatenati contro Trump, alla vigilia del voto. Ogni sua parola è usata contro di lui. Dice che la rivale Liz Cheney è guerrafondaia e dovrebbe sperimentare la guerra in prima persona? Allora è "istigazione"
Mancano solo 24 ore alle elezioni più importanti del mondo e il tono della polemica si scalda come non mai. L’ultimo scontro politico negli Usa è fratricida: il candidato repubblicano Donald Trump contro l’ex rappresentante repubblicana Liz Cheney, figlia del vicepresidente di George W. Bush, Dick Cheney. I media hanno preso le parole dell’ex presidente e le hanno usate come un’arma giudiziaria contro di lui.
Lo scontro fra la Cheney e Trump è relativamente recente. Benché, da neoconservatrice, fosse nell’ala opposta (minoritaria ormai) del partito, nel corso dell’amministrazione Trump ha votato a favore delle sue politiche nel 92,9% dei casi, secondo un calcolo di FiveThirtyEight, il sito dell’analista politico Nate Silver. Il disaccordo riguardava soprattutto la spesa militare (troppo limitata, secondo la Cheney) e la politica estera (troppo condiscendente con le dittature, sempre secondo la figlia di Dick).
Dopo la fine del mandato, però, c’è stato l’assalto al Campidoglio da parte dei sostenitori di Trump e allora è stata guerra aperta. La Cheney ha fatto scalpore per aver votato a favore dell’impeachment (il secondo in un anno) dell’ormai ex presidente. Non era l’unica, altri nove lo hanno fatto, in dissenso con il partito. Però la Cheney è stata quella più celebre ed anche quella più attiva nel sostenere il caso contro Trump. Nel Comitato sul Sei Gennaio, di cui era un membro fra i Repubblicani, aveva dichiarato: «Stasera dico questo ai miei colleghi repubblicani che difendono l'indifendibile: verrà un giorno in cui Donald Trump non ci sarà più, ma il vostro disonore rimarrà».
Per le elezioni di quest’anno, con Trump in leggero vantaggio nei sondaggi, la guerra si è intensificata. Il silenzio di Bush è abbastanza significativo: non una rottura col partito, ma neppure un sostegno al candidato ufficiale. Dick Cheney, invece, ha passato il Rubicone: ha espresso il suo aperto sostegno a Kamala Harris. E così anche sua figlia che ha dichiarato un mese fa il suo endorsement alla candidata democratica.
Il giornalista Tucker Carlson ha chiesto a Trump cosa pensasse della sua avversaria repubblicana. E l’ex presidente, che non ha peli sulla lingua: «È un’estremista guerrafondaia. Mettiamola con un fucile in mano davanti a nove fucili che le sparano contro e vediamo che ne pensa, quando ha le armi puntate in faccia. Sai, sono tutti falchi quando stanno seduti a Washington in un bell’edificio e dicono “Ma dai, mandiamo diecimila truppe dritte in bocca al nemico”». Si tratta di un commento contro le posizioni politiche da neocon di Liz Cheney che, appunto, ha iniziato la contestazione a Trump proprio su questioni di difesa e politica estera.
Ma i media, praticamente all’unanimità, hanno letto quella frase come una minaccia di morte. Quindi abbiamo poi letto commenti, a partire da Liz Cheney stessa sui suoi profili social, che accusano Trump di istigazione a delinquere contro un’oppositrice politica. Così la Cheney su X: «È così che i dittatori distruggono le nazioni libere. Minacciano di morte i loro oppositori. Non possiamo affidare il nostro Paese e la nostra libertà a un uomo meschino, vendicativo, crudele e instabile che vuole essere un tiranno». E poi ha ribadito la sua scelta elettorale rilanciando l’hashtag #VoteKamala. La candidata democratica ha colto la palla al balzo, per unirsi alle accuse di violenza politica rivolte all'ex presidente (che invece, paradossalmente, stava perorando la causa della pace, proprio in quel discorso). La Harris ha dichiarato, infatti che Trump «… ha intensificato la violenza verbale contro i suoi avversari politici e, in modo molto dettagliato, ha suggerito di puntare le armi contro l'ex deputata Liz Cheney. Questo deve squalificarlo. Uno che vuole essere presidente degli Stati Uniti e che usa questo tipo di violenza verbale è chiaramente non idoneo e squalificato dalla carica di presidente».
Surreale. Un ex presidente perora la causa della pace, accusa una rivale di essere “guerrafondaia” e usa un classico degli argomenti pacifisti (l’argomento del “dovrebbe sperimentare la guerra prima di parlarne”) e la risposta di media e Democratici è accusarlo di violenza politica. E non è solo un problema dei media, perché anche la procura dell’Arizona, foro competente in questo caso, ha aperto un’indagine per accertare se Trump possa essere incriminato per istigazione a delinquere.
Ma non basta. Perché il giorno successivo (sabato 2 novembre), in uno dei suoi ultimi comizi elettorali, Donald Trump è tornato sull’argomento dei due attentati che ha subito nel corso dell’estate. Ed ha osservato, protetto dalla sua barriera antiproiettile, «Per uccidermi dovrebbero sparare attraverso i giornalisti presenti. E la cosa non mi dispiacerebbe così tanto». Apriti cielo. Oggi il titolo dominante è diventato: “Trump vuole che sparino ai giornalisti”.
Si può essere d’accordo o meno con il modo di esprimersi di Trump, con i suoi argomenti brutali e l’umorismo nero. Ma non si può invertire la realtà fino a questo punto: l’unica violenza politica di queste elezioni, finora, è stata quella contro Trump. Con due attentati subiti e scampati, è un record imbattuto. E non saranno certo le parole o le battute dell’ex presidente a dimostrare che il violento è lui.