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COLLEGIO ELETTORALE

Trump è presidente, nonostante le "gufate" mediatiche

Tanto rumore per nulla. Notizie che si rincorrono su un possibile ammutinamento dei Repubblicani al Collegio Elettorale. E invece Trump è stato votato da 304 grandi elettori, solo due franchi tiratori, la metà di quelli della Clinton. Si conclude così l'elezione più divisiva della storia recente, con un altro mito da sfatare, assieme a tanti altri creati dai media.

Esteri 21_12_2016

Tanto rumore per nulla. Notizie che si rincorrono su un possibile ammutinamento dei Repubblicani al Collegio Elettorale, voci di un possibile ribaltamento dell’esito delle elezioni presidenziali americane, 4 milioni e mezzo di firme per far cambiare idea ai grandi elettori, alcuni dei quali sottoposti a un vero bombardamento di email. Ma alla fine, l’esito è strano nella sua banalità: lunedì, il Collegio Elettorale degli Usa ha votato Donald Trump presidente, con 304 voti, 34 in più rispetto ai 270 necessari.

C’è chi, in Italia, può restare confuso da queste notizie di elezioni presidenziali, a più di un mese da quell’8 novembre che si è concluso con l’elezione di Donald Trump. Ebbene, è presidente, a tutti gli effetti, solo da oggi, anche se non ancora insediato. Perché gli Usa, essendo una federazione, non eleggono direttamente il capo dello Stato. Ognuno dei 50 Stati elegge un numero di “grandi elettori” proporzionale alla sua popolazione. Saranno questi grandi elettori a votare in un parlamentino, chiamato Collegio Elettorale, il presidente. Su 50 Stati, meno della metà (22) lasciano i loro grandi elettori liberi di scegliere il candidato che preferiscono al momento del loro voto, gli altri impongono il vincolo di mandato. Benché fosse difficile un ribaltamento del risultato (il vantaggio di Trump era netto: 306 grandi elettori contro 232 della Clinton), nelle elezioni più divisive della storia recente americana, si pensava addirittura a una rivolta in extremis. Per lo meno se ne parlava, immaginando sempre lo scenario di un Partito Repubblicano diviso al suo interno e di responsabili grandi elettori inorriditi dalla figura del presidente che avrebbero dovuto eleggere. Questa, per lo meno, era la narrazione dei grandi media, americani e di rimbalzo anche italiani. Non si è quasi mai parlato di grandi elettori, nei voti precedenti. Li si è considerati alla stregua di punti, al massimo pedine, figure non dotate di autonomia decisionale. Solo questa volta sono diventati uomini, con una loro coscienza e una gran voglia di ribellione.

Ebbene… questa ribellione esisteva solo nella narrazione dei media. Se c’è stata un po’ di maretta, semmai, questa è stata nel campo democratico: tre grandi elettori hanno preferito votare Colin Powell (ex generale ed ex segretario di Stato… repubblicano) piuttosto che Hillary Clinton, uno ha simbolicamente votato per il nativo americano Faith Spotted Eagle, leader del movimento di protesta contro l’oleodotto nel Dakota. La Clinton, insomma, ha dovuto subire il doppio dei “franchi tiratori” (come si direbbe in Italia) rispetto a Trump. Quindi, al di là della narrazione mediatica, è la Clinton la reale figura divisiva, colei che ha spaccato la coscienza del suo partito. E’ lei l’anomalia, non Trump. E non è stato facile, per i grandi elettori repubblicani, confermare il loro voto al presidente eletto. Tutt’altro: i grandi elettori del Tennessee hanno denunciato l’arrivo di 200 email al giorno, un vero bombardamento, contenenti inviti a ribellarsi a Trump, ma anche minacce. Una grande elettrice dell’Arizona, Sharon Geise, ha ricevuto 8000 email e non ha neanche più avuto il coraggio di rispondere al telefono nel periodo pre-elettorale. “Ho assolutamente intenzione di votare Donald Trump – dichiarava un grande elettore del Kentucky, Jim Skaggs – Non credo sia una legge, ma lo considero un dovere”. Il Kentucky è uno dei 22 Stati che non prevedono il vincolo di mandato: lunedì avrebbe potuto votare chiunque. La pressione sui collegi elettorali dei 50 Stati è senza precedenti. I più pacifici hanno raccolto 4,5 milioni di firme sul sito delle petizioni Change.org per tentare convincere i grandi elettori repubblicani a non votare Trump. E le manifestazioni di piazza si sono moltiplicate, man mano che si avvicinava il fatidico lunedì 19 dicembre. Questo movimento, apparentemente grande e decisivo, si è dimostrato totalmente inconsistente alla luce dei risultati.

Così come si dimostrano inconsistenti tanti altri argomenti usati in questo mese post-elettorale negli Stati Uniti. Ad esempio, è perfettamente inutile constatare che la Clinton abbia battuto Trump nei voti popolari, aggiudicandosene più di 2 milioni in più. La campagna elettorale è impostata per conquistare Stato per Stato, concentrandosi su quelli più in bilico. Se ci fosse stato il voto popolare (una testa, un voto su scala nazionale), Trump e la Clinton avrebbero condotto una campagna completamente differente, concentrandosi sugli Stati più popolosi, come la California, il New York e la Florida. In quel caso, non è affatto detto che la Clinton sarebbe risultata vincitrice. “Avrei vinto più facilmente e più platealmente” ha twittato Trump, il quale si è sempre detto contrario al sistema attuale e più favorevole a un voto popolare, cioè all’elezione diretta del presidente. “Non cambio idea solo perché ho vinto”, ha ironizzato. A ben guardare, quei due milioni di voti di vantaggio, la Clinton li ha conquistati quasi solo in California, che è già un feudo democratico. Dunque ha preso molti voti, ma nella zona sbagliata.

E’ anche inconsistente l’argomento sul “presidente meno votato nella storia recente repubblicana”. All’inizio del conteggio, Donald Trump aveva effettivamente preso meno voti rispetto a Mitt Romney (che pure aveva perso contro Obama nel 2012) e anche di John McCain, sconfitto sempre da Obama nel 2008. Ma alla fine del conteggio del voto, risulta che Trump abbia invece collezionato numeri da record: quasi 63 milioni di voti, 2 milioni in più rispetto a Mitt Romney e 3 milioni in più rispetto a John McCain. Nonostante sia presentato come “razzista”, è andato particolarmente bene nelle minoranze. Nel suo elettorato figura un 11% di latino-americani (il dato più alto, per i Repubblicani, dal 2004), il 4% di asiatici (anche qui, il più alto dal 2004) e il 12% di afro-americani (solo un punto percentuale in meno rispetto al 13% che aveva votato McCain e Romney).

Questi argomenti, insomma, non servono a delegittimare il nuovo presidente degli Usa. Ma la campagna elettorale pare non finire mai. Adesso sta ingigantendosi sempre più la storia del “voto dirottato” dagli hacker russi. Dello spionaggio russo si sapeva da prima delle elezioni. Ma solo da quando la Clinton ha perso se ne parla in termini di “voto scippato” e di “democrazia messa in pericolo”. Da Trump, ovviamente?