Trump e il Messico, una sfida pericolosa
Donald Trump non smette di far parlare di sé, soprattutto sul tema dell’immigrazione dal Messico, vero piatto forte della sua campagna. Tornato dal suo incontro a porte chiuse con il presidente messicano Peña Nieto, torna a parlare di muro. Da far pagare al Messico. E scandalizza l'elettorato ispanico con un discorso durissimo.
Donald Trump non smette di far parlare di sé, soprattutto sul tema dell’immigrazione dal Messico, vero piatto forte della sua campagna. Tornato dal suo incontro a porte chiuse con il presidente messicano Peña Nieto, pareva aver riconquistato la fiducia dell’elettorato repubblicano moderato, oltre che del capo di Stato sudamericano. Ma poi ha di nuovo sorpreso tutti, con il discorso di Phoenix Arizona. Dove è tornato a parlare dell’immigrazione con i suoi consueti toni duri della campagna elettorale delle primarie. E dove ha detto che sarà il Messico a pagare il muro che intende costruire alla frontiera. Non è solo una semplice sparata propagandistica, ma un punto centrale della proposta di Trump in queste elezioni e un cambio di rotta drastico nella linea politica del Grand Old Party.
Prima di tutto, nell’incontro fra l’aspirante presidente degli Usa e l’attuale presidente messicano, è stato un vero atto di coraggio da parte di entrambi. Peña Nieto ha dovuto sfidare un’opinione pubblica all’85% contraria all’incontro con il candidato repubblicano. Lo stesso Trump ha sfidato l’elettorato che lo ha eletto nelle primarie soprattutto per vedere una linea dura sull’immigrazione. I due uomini si sono comunque visti in un incontro dai toni cordiali. Soprattutto hanno la stessa linea sul modo di affrontare il problema del narcotraffico: attraverso la costituzione di una task force gestita dalle due parti, come è già stato sperimentato per la Colombia. Trump, accompagnato da un suo piccolo gruppo di consiglieri costituito dall’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani (artefice della politica della Tolleranza Zero), dal senatore Jeff Sessions e dall’imprenditore Jared Kushner (genero di Donald Trump), ha voluto trattare anche gli altri temi che riguardano i rapporti con il Messico, non solo la sicurezza, ma anche la possibile revisione del trattato di libero scambio nordamericano (Nafta). Non c’è stato alcun cozzo fra le due visioni. Se non per l’equivoco su chi debba pagare il muro. Il tema era stato escluso dall’agenda dell’incontro a Città del Messico. Ma è stato reintrodotto a sorpresa dal presidente messicano, che ha anticipato che il suo paese non pagherà per la sua costruzione. L’obiezione è diventata pubblica mentre Trump era ancora in volo per Phoenix, con un messaggio inviato da Peña Nieto sul suo profilo Twitter. Al ché, il candidato presidente repubblicano ha cambiato il suo discorso nottetempo.
A Phoenix ha ribadito, a sorpresa, che: “Noi costruiremo un grande muro lungo il confine meridionale. E il Messico pagherà per il muro. Al 100%. Loro non lo sanno ancora, ma pagheranno”. Non c’è stata alcuna svolta “moderata” neppure nel resto del discorso di Phoenix, tutto incentrato sui costi e i rischi dell’immigrazione illegale. E neanche una parola, o quasi, sui benefici dell’immigrazione legale. Per Trump, i costi dei clandestini, in termini di ordine pubblico, sono umanamente ed economicamente troppo alti. Dopo aver citato vari casi di vittime della criminalità importata dal Sud America e dei danni della politica “della porta aperta” dell’amministrazione Obama, ha valutato anche un costo economico di 113 miliardi di dollari all’anno. Per questo, nel suo programma, articolato in sei punti, promette: costruzione del muro (a spese del Messico), espulsione dei clandestini, tolleranza zero sui crimini dei clandestini, taglio dei finanziamenti alle “città rifugio” sul confine, cancellazione degli ordini esecutivi di Obama per l’amnistia ai clandestini, sospensione dei visti per gli immigrati che provengono dai paesi che non forniscono sufficienti garanzie di controllo.
Al di là dell’entusiasmo del pubblico, che non è rimasto deluso da alcuna presunta “svolta moderata” di Trump, sono cresciute le difficoltà fra il candidato e il suo potenziale elettorato ispanico di destra. Due membri del suo Consiglio Ispanico hanno lasciato la campagna dell’immobiliarista sentendosi letteralmente traditi. Uno dei due, Jacob Monty, procuratore del Texas, ha successivamente dichiarato di aver consegnato a “The Donald” un piano completo per combattere la criminalità degli immigrati, rafforzare i controlli alla frontiera e regolarizzare i lavoratori negli Usa. Ma Trump “ha disatteso il piano col suo discorso di questa sera e io ora lo devo lasciare”. Alfonso Aguilar, presidente della Latino Partnership for Conservative Principles dichiara di essere rimasto profondamente deluso dal discorso di Phoenix, perché precedentemente Trump aveva assicurato di affrontare la questione dell’immigrazione illegale “in modo più umano, più compassionevole”. Artemio Muniz, a capo della Federazione dei Repubblicani Ispanici del Texas, dichiara al Wall Street Journal come l’appello alla lotta ai clandestini rivolto da Trump all’elettorato ispanico, sia finito nel vuoto. E ora, dunque, la campagna punta esclusivamente all’elettorato bianco.
Quanto conta il voto ispanico? Come si è visto nelle elezioni del 2008 e soprattutto 2012, conta molto. E’ forte soprattutto in alcuni Stati-chiave: gli ispanici sono il 24,4% dell’elettorato dell’Arizona, il 19% di quello del Nevada, il 18,2% della Florida. E quest’ultimo è lo Stato che, col suo gran numero di Grandi Elettori, deciderà l’esito del voto anche nel 2016. La causa anti-immigrazione non sta dando buoni frutti nemmeno presso l’elettorato cattolico in senso lato. Ma occorre guardare i numeri con più attenzione, in questo caso. Infatti, il dato generale rileva che fra i cattolici statunitensi la Clinton è votata molto di più rispetto a Trump, con 23 punti di stacco, quasi il doppio rispetto alla media dei sondaggi che la danno in vantaggio di 13 punti sul suo avversario. Ma se si isola la minoranza dei cattolici praticanti e di etnia europea, Trump è in vantaggio sulla Clinton, 49% contro 35%. E’ dunque più osteggiato dai cattolici non europei (latino-americani) e meno praticanti. Un elettorato demograficamente pesante.