Trump abbraccia Wall Street. Per realismo
Nella nuova amministrazione Trump ci sono alcuni nomi di spicco del mondo conservatore. Ma i "big" del movimento, come Romney, la Palin e Gingrich restano a bocca asciutta. Alla fine prevalgono i tecnici e, fra questi, banchieri della Goldman Sachs e uomini dell'alta finanza. Tradimento del trumpismo? No, semplice realismo.
Un colpo al cerchio e un colpo alla botte. Sembra essere questa la strategia seguita dal presidente eletto Donald J. Trump per le nomine del proprio governo. L’evidenza più clamorosa è la scomparsa dei nomi eccellenti circolati alla vigilia per certi posti chiave. Si erano fatti i nomi di Newt Gingrich e di Mitt Romney, ma entrambi sono tramontati. Avrebbero costituito liaison eccellenti verso da un lato il mondo conservatore e dall’altro quello Repubblicano, con i quali la riconciliazione non è ancora completa, e invece nulla; l’outreach postelettorale non va oltre le nomine di Reince Priebus, Steven K. Bannon, Elisabeth DeVos, Nikky Haley e Ben Carson. Bene inteso si tratta di nomine serie e importanti, ma nessuna va al cuore dell’erigenda Amministrazione.
Si era fatto pure il nome di Rudolph Giuliani, il più fedele amico politico di Trump, ma è svanito anch’egli. Qui la logica sarebbe stata diversa giacché Giuliani non è un conservatore e, quanto al mondo Repubblicano, è forse uno degli ultimi rappresentanti della “vecchia guardia” piuttosto liberal in via di estinzione, ma nemmeno la logica della riconoscenza sembra avere contato. A becco asciutto resta anche Chris Christie, comunque esponente del mondo conservatore, e del “movimentismo”, che, scegliendo di schiacciarsi completamente su Trump durante le primarie, forse si è giocato tutto ma senza vincere, compreso il favore di quella parte del mondo conservatore che ancora lo sosteneva (e che ha scelto in tempi non sospetti di appoggiare Trump) passando sopra alcune sue prese di posizione e alcuni scandali che a Christie avevano invece già alienato le simpatie di un’altra parte del mondo conservatore. Niente infine pure per Sarah Palin, sostenitrice di Trump della prima ora secondo un calcolo politico ben temperato e lucidamente spregiudicato.
Al posto di questo mondo ne entra invece vistosamente in scena un altro. Quello (nonostante la demagogia elettorale) di Wall Street o, meglio, della banca d’affari Goldman Sachs. Da Wall Street vengono Wilbur Ross, nuovo ministro del Commercio, e il suo vice Todd Ricketts; da Goldam Sachs vengono Steven Mnuchin, già gestore dalla campagna elettorale di Trump cui è andato il ministero del Tesoro, il fidato consigliere Bannon e Gary D. Cohn nominato direttore del Consiglio economico nazionale della Casa Bianca che della banca d’affari è stato finora niente meno che il presidente.
La Goldman Sachs è dentro le stanze del potere da sempre: dal suo entourage sono venuti ministri del Tesoro e altri alti funzionari governativi statunitensi, governatori di banche centrali, il governatore della Banca centrale europea Mario Draghi, l’ex capo del governo tecnocratico italiano Mario Monti, il primo ministro australiano Malcolm Turnbull, l'ex presidente della Commissione europea José Manuel Durão Barroso, ma non estranei al suo mondo sono stati anche l'ex sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio italiano dei ministri Gianni Letta, il primo ministro greco Lucas Papademos, l'ex premier italiano Romano Prodi e il sottosegretario all'Economia del suo secondo governo Massimo Tononi. Se fossimo in un romanzo di Umberto Eco ci sarebbe da gridare alla cospirazione e in effetti Goldman Sachs è un must dei complottisti, i quali, ponendo al principio di ogni altra considerazione il suo nome inequivocabilmente ebraico ? è quello dei suoi fondatori, Marcus Goldman (1821-1904) e suo genero Samuel Sachs (1851-1935), banchieri statunitensi di origini tedesche ?, ne fanno uno dei grandi burattinai “turbocapitalisti” e “neoliberisti”. Solo che sul fronte complottista ? a volte (almeno in parte) sovrapponibile a quello entusiasta per la vittoria del populismo trumpiano ? tutto tace. Eppure non ci potrebbe essere distanza maggiore tra la retorica del disprezzo per le élite, persino per i milionari a vocazione globale, che circola in questi mondi e il tono del gabinetto che il presidente eletto sta costruendo. Fra molti, lo nota l’opinionista economico William David Cohan (un passato in Lazard Frères, Merrill Lynch e JP Morgan) che di Goldam Sachs e simili ha fatto il proprio target preferito, non risparmiando né Trump né l’arciamica di Wall Street, Hillary Clinton.
Strani silenzi a parte, che cosa sta combinando dunque Trump? Sta supplendo alla propria impreparazione politica applicando il solo criterio che conosce: quello del business. Che però per la sua storia d’imprenditore beneficiato dal rapporto stretto con il mondo politico newyorkese (la sua amicizia con Giuliani predata l’incarico di quest’ultimo a sindaco di New York e con il suo successore, Michael Bloomberg, Trump ? e Bill Clinton ? giocavano a golf) significa capitalismo clientelare, quel crony capitalism che per la vera imprenditoria americana è fumo negli occhi. Da decenni lo dice bene Jerome Tuccille, autore libertarian della prima biografia del presidente eletto, Trump: The Saga of America’s Most Powerful Real Estate Baron (Beard, Hopkins [Minnesota] 1985), ma ancora si continua a spacciare per vere le caricature del libero mercato.