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INCONTRO CON L'EX MINISTRO

Tremonti: tre profezie sul nuovo disordine mondiale

Giulio Tremonti, già ministro dell'Economia, spiega alla NBQ le sue "tre profezie", contenute nel suo ultimo lavoro. E ci parla delle tendenze che hanno rapidamente portato al grande disordine mondiale di questi anni. Da una globalizzazione troppo accelerata, fino al processo di trasferimento di sovranità dalle nazioni europee all'Ue

Economia 29_05_2019
Giulio Tremonti

Il suo ultimo libro si intitola Le tre profezie. E di profezie, Giulio Tremonti, se ne intende non poco: chi segue la sua attività saggistica, sa bene che molte delle sue previsioni si sono poi rivelate azzeccate. Già nel 1993, nel volume Nazioni senza ricchezza, ricchezze senza Nazione, analizzava le contraddizioni tra l'internazionalità dei mercati e le politiche economiche degli Stati. Nel 1995, a pochi mesi dall'accordo della WTO sul libero commercio mondiale che segnò l'inizio della globalizzazione contemporanea, l'ex ministro dell'Economia evocava il ritorno del  "fantasma della povertà" in Occidente con i movimenti da Sud verso Nord di masse di manodopera a basso costo attirate dalle immagini virtuali dell'opulenza occidentale. In Rischi fatali (2005) fu il primo a denunciare gli eccessi della burocrazia europea e a evidenziare la sfida alla supremazia occidentale rappresentata dalla Cina. La paura e la speranza, invece, è finito – giustamente – per essere considerato un testo-chiave in grado di fotografare un'intera epoca: quella segnata dalla crisi della globalizzazione a cui si è arrivati lasciando sì che il mercatismo divenisse il motore ideologico di quel processo. Ma nel celebre saggio del 2008, Tremonti non si limitò a presentare un'analisi precisa e inoppugnabile della crisi globale ed in particolare di quella europea, ma offrì un decalogo di proposte concrete, rimaste – ahimè – inascoltate. I successivi Uscita di sicurezza e Mundus Furiosus, invece, anticiparono fenomeni fino a quel momento inimmaginabili quali l'avvento del sovranismo, la Brexit e la vittoria di Trump.

Nel suo ultimo libro, da studioso privo di condizionamenti ideologici e al tempo stesso testimone oculare della storia recente qual è, Giulio Tremonti propone un'analisi sulle cause e gli effetti di questa seconda globalizzazione iniziata più di un ventennio fa e che sta mostrando oggi più che mai tutte le sue crepe. Lo fa, non dimenticando di indicare anche i possibili rimedi per invertire la rotta, con un occhio speciale riservato alle sorti del Vecchio Continente. Gli "appunti sul futuro" dell'ex ministro dell'Economia partono dalle "tre profezie" di autori molto lontani temporalmente da noi, ma che hanno tratteggiato il concretizzarsi di realtà che si stanno consolidando in questi anni: le previsioni di Marx sul "l'antico isolamento nazionale" sostituito dall'"interdipendenza universale" e sullo "stregone" che "non potrà più dominare le potenze sotterranee da lui evocate"; i "biglietti alati" immaginati da Goethe nel "Faust"; il risultato del cosmopolitismo predetto da Leopardi, secondo cui "quando tutto il mondo fu cittadino romano, Roma non ebbe più cittadini; e quando cittadino romano fu lo stesso che cosmopolita, non si amò nè Roma nè il mondo". Le tre profezie può essere un utile strumento nelle mani dei lettori per comprendere come si è arrivati al disordine odierno e quali sono le strade per poter provare ad uscirne. Ricevendoci nel suo studio romano, Giulio Tremonti ci ha presentato questo suo ultimo lavoro in cui ha dato prova, ancora una volta, della finezza di pensiero e della capacità di esposizione che da sempre lo contraddistinguono nel panorama politico-culturale.

Professore, possibile che il mondo globalizzato si sia ritrovato così impreparato a fronteggiare la crisi del 2008?

La globalizzazione è un’utopia nel senso letterale del termine e in uno scenario utopistico il concetto di crisi non è proprio contemplato. Dai sogni ci si risveglia sempre e spesso anche di colpo. Così è accaduto nel 2008 quando il mondo, attonito, conobbe il lato oscuro dell'utopia della globalizzazione: dal momento che tutto ormai era divenuto globale, globale fu anche il dilagare della crisi.

Nel suo libro lei smentisce che al suo inizio la globalizzazione sia stata assenza organizzata di responsabilità...

Mentre Marx, Goethe e Leopardi non li ho conosciuti, ho avuto a che fare con gli “illuminati”, quelli che hanno creato - e cantato - il mondo nuovo. Stiamo parlando di un nucleo organizzato di uomini accomunati dall'uso della lingua inglese e dalla convinzione che quello fosse il momentum per agire e che bisognasse farlo con radicalità. Nulla impediva alla globalizzazione di svilupparsi in tempi più lunghi e modi più saggi, ma costoro fecero prevalere la logica del "tutto e subito", determinando la compressione di un processo così delicato nel giro di pochissimi anni.

Quali interessi li mossero in quella direzione?

Alcuni erano spinti da una forte motivazione intellettuale, altri dal denaro. Si è creato un blocco di pensiero e poi di azione accademico, finanziario, mediatico e culturale. Un blocco che, successivamente, ha incorporato la sinistra sconfitta. Una volta consolidata la globalizzazione, i sinistri trasferirono nel "nuovo tempio" i loro sconfitti Penati.

Queste forze interpretano il 1989, con la caduta del Muro di Berlino, come l'"anno zero" della storia...

Quando cade il Muro di Berlino, finiscono le ideologie e si aprono i forzieri di internet. Da allora c'è stato circa un ventennio (1989-2008) contrassegnato da un ottimismo universale creduto irreversibile e dall'idea che gli Stati hanno portato i conflitti, mentre il mercato porta la pace. All'origine della crisi c'è proprio questa non sostenibile scissione tra Ricchezza e Nazioni: il vecchio mondo liberale capitalistico fino ad allora si era retto proprio sull'equilibrio esistente tra le due, un modello che si potrebbe sintetizzare nella formula "Ricchezza nelle Nazioni". Alla caduta del Muro si verificano, dunque, due fenomeni fondamentali per capire la situazione odierna: la ricchezza esce dai confini degli Stati e - con il capitale totalmente assorbito dalla finanza - si entra nella dimensione apolide propria della "repubblica internazionale del denaro"; l’altro è che la Ricchezza esce dai confini fisici e prende forma – più che sostanza – sulla Rete. Viviamo nella prima fase della storia in cui il conflitto e la dialettica tra Creso – cioè il denaro - e l'imperatore – ovvero il potere politico - si stanno risolvendo con la vittoria di Creso.

Passiamo all'Europa. Nel libro lei rileva la cessione di poteri pressochè totale dagli Stati nazionali a Bruxelles.

Nel luglio 1989 scrissi sul Corriere della Sera un articolo intitolato Una rivoluzione che svuoterà i parlamenti, nel quale sostenevo che “come nel 1789 si costruivano le prime moderne 'macchine' politiche, assembleari e parlamentari, così nel 1989, due secoli dopo, queste si sarebbero via via svuotate”. Ed è quanto accaduto con l’erosione del potere originario degli Stati-Nazione. Il trasferimento quasi illimitato di competenze amministrative e – soprattutto – legislative dagli Stati nazionali a Bruxelles sta proiettando l'Europa – da corpus economico qual'era – in una vastissima dimensione politica. Ma in questi anni la governance europea ha dimostrato di utilizzare in eccesso questi poteri, producendo una quantità esagerata di nuove regole invasive e dilaganti nella vita dei cittadini. A questo tentativo di voler uniformare la società europea a colpi di leggi, le popolazioni stanno reagendo dando il voto a chi promette di difendere le loro tradizioni e le loro libertà.

Anche il voto sulla Brexit va interpretato in chiave di ribellione alle troppe regole opprimenti di Bruxelles?

Non molti ricordano che, proprio pochi giorni prima del referendum, Bruxelles sospese una direttiva toilet flushing sugli impianti igienici da standardizzare nelle case europee. In un dibattito televisivo poco prima del voto dissi che per capire la Brexit bisognava guardare la serie tv Downton Abbey, intendendo con ciò che si dovesse prestare attenzione alle preoccupazioni e agli umori delle campagne inglesi. La governance europea sta comunque sottovalutando la perdita dell''Anglosfera' nella convinzione di poterla rimpiazzare con l'apertura ai Balcani. Ma senza l'Inghilterra, l'Europa rischia di essere condannata all'irrilevanza geopolitica.

I populismi rappresentano davvero un pericolo per l'Europa?

La retorica tende a presentare quello in atto come uno scontro tra europeisti e populisti. Chi si ostina a gridare "al lupo! al lupo!" contro questi ultimi, però, avrà la sorpresa di scoprire che il lupo non c’è. L'unico effetto che otterranno sarà quello di far aumentare i voti in favore del 'lupo', ma senza che questo possa diventare maggioranza. E se il 'lupo' non sarà maggioranza, saranno sempre loro a dover governare e quindi a dover risolvere i problemi, sempre più numerosi, dovendo gestire pure un'opposizione rafforzata. Nel libro distinguo tre forme di populismo: uno sperimentale, favorito dalla Rete e che determina l'affermazione del 'culto della credenza' in base a cui si crede a tutto e perciò non si crede niente; uno bieco e violento, convinto di avere sempre la verità in tasca e che ha necessità di identificare-configurare un nemico; uno disciplinato, che non va criminalizzato e che, se saggio, può fare più o meno quello che altri, pur 'democratici', vorrebbero forse fare, ma non fanno.

Che 'uscita di sicurezza' si sente di indicare per l'Europa di oggi?

Due punti: De-Tax per l'immigrazione e tregua legislativa. La prima è una soluzione che avevo illustrato per la prima volta nel 2001 per gestire i flussi migratori ma che l'Europa bocciò. La De-Tax non sarebbe una tassa, ma uno strumento volontario di sostegno allo sviluppo dell'impresa in Africa. Su ogni prodotto acquistato in Italia in un negozio impegnato nella solidarietà e convenzionato con una rete di Onlus, il governo rinuncia a 1 punto dell'Iva dovuta che, anzichè andare all'Europa, andrebbe direttamente alle attività di sosegno economico e sociale in Africa. L'Europa, infine, deve fermare l''orgia legislativa' in corso e abbandonare l'idea di disegnare a colpi di legge la società perfetta. Dovrebbe, quindi, lasciare alla sovranità degli Stati nazionali ciò che non è essenziale per l'Unione.

Come mai il modello di Europa che conosciamo oggi è così lontano da quello sognato dai padri fondatori nel Dopoguerra?

Se si osserva la foto della firma del Trattato di Roma del 1957 e la si confronta con quella di una qualsiasi riunione di vertice odierno, risalta la differenza nei volti dei protagonisti: quelli di ieri erano reduci da una guerra, avevano sofferto la fame e conosciuto la prigione per le loro idee. Esisteva un'identificazione tra quella classe dirigente ed i popoli che rappresentavano. Oggi, invece, c'è un totale scollamento tra elite e popoli e questi ultimi non hanno più molta fiducia in chi li governa. Se andassero nei bar, i luoghi più democratici del mondo, a dire che serve "più Europa" – come fanno in tv - non incontrerebbero una grande accoglienza, mentre se invocassero un impegno continentale comune su sicurezza ed intelligence, probabilmente troverebbero anche qualcuno che gli offre un caffè. Nel giorno della firma del Trattato di Roma fu invocata una benedizione per 'illuminare le menti e guidare le mani di chi andava a firmarlo'. Bisognerebbe ritornare allo spirito di quel Trattato che univa popolo ed elitè e che ha garantito decenni di pace e prosperità all'Europa.