Tre piani, la giustizia umana non basta
L’ultimo film di Nanni Moretti “Tre piani”, in concorso al Festival di Cannes di quest’anno, rappresenta una svolta. Non soltanto perché per la prima volta non si tratta di un soggetto originale, bensì della trasposizione cinematografica di un romanzo; ma soprattutto perché dimostra che si può andare oltre il corrosivo cinismo e l’ironia beffarda a cui il regista ci aveva abituati. E così rinasce la speranza.
La piccola “rivoluzione” nel cinema di Nanni Moretti, che rinuncia al suo tipico sarcasmo, non è piaciuta a molti dei suoi abituali estimatori e ai critici di professione. Ma per noi è una sorpresa positiva. “Uscite da questa casa, c’è un mondo fuori”, afferma con sicurezza il severo giudice interpretato dallo stesso Moretti nella pellicola. È proprio questo l’invito del film Tre Piani, che ci suggerisce di allargare lo sguardo aldilà del nostro mondo piccolo-borghese. Esortazione raccolta dal Moretti regista, che abbandona coraggiosamente il suo stereotipo egocentrico irridente e ironicamente spietato, che pur gli ha regalato un indiscutibile successo. Scompaiono in tal modo l’orgoglio e le certezze dello “splendido quarantenne” e si passa d’un colpo (finalmente?) al disincanto, desideroso però di una rinnovata speranza, del regista ormai sessantenne. Si aprono così domande di senso sul mondo sfilacciato in cui viviamo, alla ricerca di una possibilità di salvezza.
Protagoniste sono tre famiglie che abitano nella sobria palazzina di una grande città. Con il loro bagaglio di difficoltà quotidiane e drammi di vita di relazione. Le storie raccontate da Tre piani si ispirano abbastanza fedelmente all’omonimo romanzo dell’israeliano Eshkol Nevo e affrontano temi cruciali come l’amore, il tradimento, il sospetto, la paura, la giustizia. La scena iniziale ci catapulta nell’edificio squarciato da un’auto, coinvolta in un incidente attorno al quale ruoteranno i tre gruppi familiari di cui scopriamo lentamente le ferite profonde. È Andrea, il figlio ventenne ubriaco e ribelle dei due giudici che abitano con lui all'ultimo piano, a investire una donna che resta uccisa. I suoi genitori, Dora (una tormentata Margherita Buy) e Vittorio (l’algido e implacabile “giustiziere” Nanni Moretti) non vogliono o non possono fargli sconti e in particolare il padre ritiene che il ragazzo debba essere condannato per ciò che ha fatto. La frattura tra genitori e figlio è insanabile e la madre, che pur vorrebbe essere più conciliante, è costretta alla scelta dolorosa tra marito e figlio, abbandonando quest’ultimo al suo destino. Contemporaneamente si svolge un altro dramma al primo piano. Lucio (Riccardo Scamarcio) e Sara (Elena Lietti), adulti in carriera, lasciano spesso la loro bambina di 7 anni agli anziani vicini Renato e Giovanna, che le fanno da babysitter, quando loro sono impegnati col lavoro. Ma una sera la piccola, lasciata incautamente con il solo Renato, a volte affetto da qualche amnesia, scompare con lui e viene ritrovata solo dopo molte ore. Il padre della bimba teme che le sia successo qualcosa di brutto, non si fida dell’anziano e la sua diventa un’ossessione (in realtà infondata) che logorerà il rapporto con la moglie e con i vicini.
Più nascosta, ma non meno lacerante è la condizione di Monica (Alba Rohrwacher), inquilina del secondo piano. Impreparata alla maternità, deve affrontare in solitudine il parto sin dal primo momento (si reca infatti incredibilmente da sola in ospedale, trascinando il suo trolley…). Il marito Giorgio (Adriano Giannini), pur affermando di amarla, è sempre assente per lavoro e lei teme di perdere il senno come sua madre, tormentata com’è da sogni angosciosi e infausti presagi. Il compagno di vita comprenderà il dramma della sua condizione solitaria forse troppo tardi. Nelle storie raccontate da Moretti qualche nodo si scioglie solo alla fine, dopo tanta sofferenza, con la prospettiva intravista di un bene possibile, simboleggiato dal luminoso abito a fiori indossato da Dora per il tanto atteso recupero del rapporto col figlio Andrea e una nuova disponibilità verso la vita. Le varie, complesse situazioni in cui si trovano gli abitanti della palazzina di tre piani però non si “aggiustano” per l’affermarsi della giustizia umana.
Moretti sembra volerci dire che la bellezza della vita c’è, e somiglia piuttosto alla libertà gioiosa del ballo in strada del finale, allusione esplicita alla generosità dell’amore. Solo così sembra possibile vincere le proprie ossessioni e le ferite inferte o subite. Questo ci dicono i personaggi di Tre piani, specchio fedele delle sofferenze e meschinità dei nostri tempi. Ed è per questa sincera apertura ad un nuovo orizzonte che il film di Moretti ci convince, al di là dei meriti o demeriti strettamente tecnico-cinematografici: perché lo sconforto per le nostre debolezze non è l’ultima parola.
Ma forse il bisogno struggente di ricominciare, per non permettere che il dolore e l’ingiustizia siano l’unica cifra della fragilità dell’uomo contemporaneo, è un tratto cruciale del nostro tormentato momento storico che il cinema, attraverso le sue storie di oggi e di ieri, non può ignorare. Come avviene anche nel recente film L’Arminuta di Giuseppe Bonito, pure questo tratto da un romanzo, il bestseller di Donatella Di Pietrantonio vincitore del premio Campiello 2017. Ci racconta una storia ambientata negli anni Settanta, con protagonista una ragazzina di 13 anni, figlia di due madri, ma in realtà di nessuna. Restituita improvvisamente e senza spiegazioni alla famiglia povera a cui non sapeva di appartenere, perde per sempre il mondo dorato borghese e affettuoso in cui è stata cresciuta e coccolata. Un anno di vita di questa ragazzina misteriosa, alle soglie dell’adolescenza, segnerà con dolore e durezza la sua esistenza, ma non cancellerà lo squarcio di amore che ha vissuto e che le permetterà di aprire comunque le porte al suo futuro di donna. Quando il cinema è capace di accostarci alla profondità dello sguardo sull’essere umano e a una rinnovata speranza, diventa davvero una ricchezza affascinante per tutti noi.