Tracce di Dio, di Vittorio Messori
Come Sant'Anselmo, come Pascal: abbiamo bisogno di cercatori inesausti di tracce e di segni; di gente che, pur rispettosa del Mistero, ci mostri che la fede ha a che fare con l’intuizione, con il sentimento, ma anche con quell’altro dono di Dio che è la ragione (da La sfida della Fede, SugarCo 2008) .
Pubblichiamo un articolo tratto dai "Vivaio" scritti da Vittorio Messori e raccolti in cinque volumi pubblicati dall'editrice SugarCo. Quello che segue è tratto dal volume La sfida della fede, 2008.
Salmo 13,1: «Lo stolto pensa: “Non c’è Dio!”». Dunque – se la Bibbia è ciò che la fede crede, se nelle sue parole c’è la verità – negare Dio significa non sapere, non volere usare la ragione: essere «stolti», appunto. Ma con quali argomenti razionali il credente può convincere di «stoltezza» l’ateo?
Una notte del 1077, nell’abbazia benedettina di Bec, in Normandia. Un monaco sui 45 anni veglia e prega, cercando una risposta a quella domanda. In decenni di riflessione ha sì elaborato «prove» secondo le quali non è possibile negare Dio senza essere irragionevoli, ma non ne è soddisfatto. Ciò che cerca un argomento breve e unico, comprensibile a tutti e che tutti possano, anzi debbano, accettare, pena la contraddizione. Così da dimostrare che il salmo ha ragione. Quella notte ecco, improvviso, il flash, l’intuizione.
Quel monaco è Anselmo di Aosta che la Chiesa farà suo santo e dottore; l’argomentum da lui intravisto nella veglia del 1077 è quello detto a priori, od ontologico, e sul quale da allora si arrovellano le menti migliori: o per accettarlo (è il caso di Cartesio, di Leibniz) o per rifiutarlo (Kant, ma anche Tommaso d’Aquino).
Varrà la pena ricordarla, quella argomentazione: «Se Dio esiste, è l’Essere di cui nulla di più grande e di più perfetto può essere pensato. Il concetto di un simile Essere è nella nostra mente, ma deve esistere anche nella realtà. Perché, altrimenti, sarebbe possibile pensare un Essere più grande e più perfetto, perché esistente non solo teoricamente ma anche realmente». Ma, allora, non c’è scampo: pensare Dio è già affermarlo, averne l’idea è già ammetterne l’esistenza, altrimenti ci si contraddice. Ecco, dunque, che chi dice «Non c’è Dio!» è «stolto», perché si mette in contrasto con la sua ragione.
Così la certezza (o l’illusione?) di Anselmo. E ancor oggi, dopo nove secoli. Si discute se abbia torto o ragione.
Si sa che un altro cristiano che si arrovellava per trovare conferme razionali alle verità della fede, Blaise Pascal, non discuteva il valore oggettivo di argumenta come quello di sant’Anselmo, ma era scettico sulla loro efficacia concreta: «Queste prove filosofiche di Dio sono tanto lontane dal modo di ragionare degli uomini comuni che colpiscono poco. E quand’anche servissero per alcuni, servirebbero solo nel momento in cui vedono la dimostrazione. Ma un’ora dopo temerebbero di essere ingannati».
Convinto che Dio avesse scelto una strategia di nascondimento, di chiaro e di oscuro, quasi un gioco a rimpiattino con l’uomo per preservarne la libertà (ché non può esserci amore nella costrizione), Pascal vedeva il cristiano come un detective, un indagatore di tracce e di indizi. Più che mettere l’incredulo con le spalle al muro, dimostrandogli che era «stolto» se non accettava subito la fede, cercava di mostrargli che era «stolto» se non si metteva a cercare: intelligo ut credam, capisco per credere. I già credenti come lui, poi, Pascal li esortava a calare la loro fede su se stessi e fuori per vagliarla, per metterla alla prova e dunque per trovarvi conferme: credo ut intelligam, credo per capire.
Poiché la «caccia al tesoro» è aperta a chiunque – è anzi un dovere per il credente – anche il sottoscritto, e non da ieri, vi partecipa. Chiedendosi, tra l’altro, quanti abbiano mai esplorato le conseguenze dell’affermazione, inaudita nella storia religiosa, della Prima Lettera di Giovanni : «Dio è amore» (4,8). Ma un simile Dio è anche quello che «in principio creò il cielo e la terra», come proclama il primo versetto della Bibbia.
Da qui la pista di ricerca, certo scandalosa per alcuni, ma coerente per un cristiano che non prenda la fede per un vaniloquio, e veda dunque l’universo come un sistema di segni e di indizi: vi è, cioè, nel Creato, inteso in senso fisico, una qualche traccia che è opera di un Creatore la cui essenza è l’Amore?
Fatti come siamo (e come anche qui la Bibbia dice) «a immagine e somiglianza» di quel Dio-Amore, sperimentiamo che amare significa «essere attratti», «gravitare» su un altro.
Ed ecco che proprio la fisica moderna ci ha mostrato che tutto l’universo, dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo, è tenuto insieme da una forza misteriosa della quale la scienza sa misurare l’intensità, ma della quale non sa spiegare l’origine e la natura. È la forza detta di «attrazione» e di «gravitazione universale», per la quale tutti i corpi materiali si attraggono tra loro.
L’universo svanirebbe di colpo se tutto non fosse attirato, misteriosamente quanto infallibilmente, da tutto; se tutto non gravitasse attorno a qualcos’altro. Dagli elettroni che girano attorno al nucleo dell’atomo, dagli atomi che si uniscono tra loro in molecole, sino ai pianeti che, avvinti dal Sole, vi ruotano attorno e a questo che ruota attorno al centro della galassia e alle galassie che ruotano attorno a uno sconosciuto ma pur sicuro centro dell’universo.
Questa forza fisica di attrazione, per cui nulla esiste isolato. «per conto suo», ma in rapporto a qualcos’altro, non sarà per caso l’equivalente nella materia di quell’amore che l’uomo sperimenta anch’egli come forza di attrazione, di gravitazione (come «un girare attorno all’altro»)? Ed entrambe queste forze, fisica e morale, che tengono insieme tanto la società quanto l’universo, non saranno la «firma», discreta eppur sicura, del Dio del quale la Scrittura rivela l’essenza come Amore?
Naturalmente, è con esitazione, consapevole della complessità delle cose, che mi azzardo a porre simili domande. E so bene come lo scandalo maggiore rischi di essere proprio quello di scienziati «credenti», timorosi di mescolare teologia e scienze sperimentali. Ma può forse l’uomo dividersi in compartimenti stagni: sin qui il credente, da qui in poi lo scienziato? I dati oggettivi sono gli stessi per tutti: ma perché, una volta acquisitili, il credente non potrebbe meditarvi sopra alla luce della sua fede?
Forse, è di uomini come Anselmo, come Pascal che abbiamo di nuovo bisogno: cercatori inesausti di tracce e di segni; di gente che, pur rispettosa del Mistero, ci mostri che la fede ha a che fare con l’intuizione, con il sentimento, ma anche con quell’altro dono di Dio che è la ragione.