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UN ANNO DOPO MINSK

Tra Russia e Ucraina niente pace, ma solo piccole guerre

A un anno dagli accordi di "Minsk 2" tra Russia e Ucraina, sotto il controllo di Francia e Germania, appaiano ancora incerti gli esiti e il rispetto di quelle intese. A più riprese, il  presidente ucraino Petro Poroshenko ha accusato Mosca di continuare a inviare uomini e armi ai ribelli filo-russi nelle regioni sud-orientali.

Esteri 17_02_2016
Il presidente ucraino Poroshenko

Il 12 febbraio di un anno fa rappresentanti della Repubblica di Ucraina e delle due regioni dell’Est, Donetsk e Lugansk, autoproclamatesi repubbliche indipendenti, nonché esponenti della Federazione Russa, della Repubblica Federale di Germania e della Repubblica francese nella veste di mediatori, sottoscrissero gli accordi  “Minsk 2”, dal nome della capitale della Bielorussia, ove erano ospiti del presidente di quella nazione, e sotto gli auspici dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e cooperazione in Europa) incaricata di monitorarne l’applicazione. 

Da essa, fra giorni, al termine di un’annunciata riunione a livello ministeriale, dovremmo sapere come le cose sono andate, o come non sono andate bene stando ai resoconti  giornalistici e a testimonianze varie, di parte e neutrali; nonché da quel che ha  lasciato intendere una comunicazione congiunta di Russia, Germania e Francia  il 31 dicembre scorso, data in cui scadevano i tempi degli accordi, perché la loro validità da essi veniva estesa a tutto il 2016.  Il condizionale sulla divulgazione di una ricostruzione degli eventi, evidentemente sulle difficoltà di attuazione degli accordi, è d’obbligo perché in questi anni di guerra e di tregue, l’Osce è stata più che avara di comunicazioni, e meno ancora di documentazioni, forse per non acuire la conflittualità con le immancabili polemiche che ogni parola o particolare può suscitare, ma favorendo così il proliferare della disinformazione. Deleteria non soltanto per le popolazioni interessate, ma anche per l’ opinione pubblica internazionale, ed europea in particolare.

A dilazionare la riunione ministeriale sono i concomitanti impegni delle tre Nazioni mediatrici nella ricerca di un cessate il fuoco per la gravissima crisi siriana. A offuscare il clima generale di attese è giunta quella che viene presentata a Kiev come una riuscita operazione della diplomazia russa, attraverso il Patriarcato ortodosso di Mosca, con la Dichiarazione firmata da papa Francesco e dal patriarca Kirill a Cuba, venerdì scorso, che ha sollevato in Ucraina vivissime reazioni. Naturalmente per quel che vi è affermato sullo “scontro” e sul “conflitto” in corso, come se si trattasse – così viene sostenuto a Kiev da molti commentatori e personalità, anche cattoliche – di una guerra civile e non di una palese aggressione russa, dell’annessione di parte del territorio ucraino,  la Crimea, e dell’invasione di altro territorio nazionale, le due confinanti regioni dell’Est.  

C’è inoltre l’irritazione del Cremlino  per l’entrata in vigore, all’inizio di quest’anno, dell’accordo di libero scambio tra Ucraina e Unione Europea, un altro passo importante nel disegno di Kiev di un’associazione stretta e poi dell’adesione all’ Ue, segno del persistente rifiuto di stare nell’area di quegli interessi strategici che Mosca considera vitali. Ma c’è pure la speranza, fortemente coltivata dalla Russia, che le difficoltà incontrate dal presidente ucraino Poroshenko e dal governo in carica nella lotta alla corruzione, nella riforma dell’apparato giudiziario apparentemente colluso, e nel  risanamento e decollo dell’economia  possano portare il Paese a nuove elezioni politiche e alla probabile vittoria del partito filo-russo delle Regioni, oggi all’opposizione.

Emblematiche le dimissioni, poi comunque ritirate, del ministro dell’Economia che ha accusato uomini vicini al presidente di vanificare i suoi sforzi volti al controllo delle risorse finanziarie. Gesto che ha allarmato il Fondo Monetario Internazionale a tal punto da minacciare la sospensione dei suoi interventi a sostegno di un’economia “al collasso”. (importanti sono stati quelli dello scorso agosto, che hanno visto fra l’altro un taglio del 20 per cento del debito e l’allungamento di 4 anni delle scadenze in corso). Con l’intento di fare il punto sulla situazione nel Donbass, cominciamo col dire che esiste un cessate il fuoco nominale che però non viene rispettato, prevalentemente da parte dei separatisti. Esperti militari testimoniano la persistenza di quel che definiscono un «conflitto a bassa intensità».

L’ultimo importante scontro a fuoco è avvenuto  il 10 gennaio scorso  nella località di Zaytsevo (55 km. a nord-est di Donetsk) con un bilancio di quattro morti, due dei quali importanti: il colonnello Evgenij Kononov, comandante di una brigata  separatista; e d‘altra parte un ufficiale della polizia nazionale, capo del battaglione di volontari Mirotverets. Sono stati i primi caduti del 2016 che vanno ad aggiungersi al gran numero di morti dall’aprile 2014, ben 9000 per approssimazione (duemila dei quali filorussi, come da recente ammissione di loro fonti ufficiali). Per restare nel limbo del silenzio Osce, nulla si sa dei tentativi, che dovrebbero esserci stati, volti a far ritirare le forze sul terreno.  

Al secondo punto del documento di "Minsk 2" allude il comunicato delle tre Nazioni mediatrici del 31 dicembre scorso quando afferma che viene esteso al 2016 l’accordo sul ritiro coordinato delle truppe con armi pesanti. Ma ci si chiede se ci sia stato il ritiro delle unità militari di altri Paesi e dei mercenari, il disarmo dei combattenti cosiddetti “illegali”, e se l’Ucraina abbia ristabilito, entro la fine 2015, il previsto pieno controllo del confine con la Russia. In effetti nulla sarebbe avvenuto di tutto questo. Ci sarebbero stati, questo sì, scambi di prigionieri e l’arrivo di aiuti umanitari. Ma non si sa nulla delle amnistie previste al pari delle intensificate attività del “gruppo di contatto trilaterale” fra l’altro per determinare il modello della ricostruzione delle relazioni sociali ed economiche, in particolare nel sistema bancario. 

Qualcosa si è mosso in Ucraina sul fronte politico della riforma costituzionale. La Rada (Camera unica del Parlamento) ha approvato con 265 voti su 450 un’ampia autonomia per le due regioni di Donetsk e di Lugansk, sancita in uno statuto speciale della durata di tre anni, e una legge quadro sulle modalità operative delle amministrazioni locali. Provvedimenti molto invisi e non soltanto  a parte del  mondo politico ostile al documento di Minsk, ma anche a larghi strati della Nazione e sfociati in una violenta contestazione, fuori della Rada, del gruppo nazionalista di destra “Sloboda” repressa dalle forze dell’ordine con il pesante bilancio di tre morti e 122 feriti.

Gli accordi di Minsk  hanno previsto pure che ci siano discussioni e intese sulla elezioni nelle due regioni, sull’ autodeterminazione linguistica, sulla nomina dei capi delle procure giudiziarie e dei tribunali, sull’organizzazione della polizia locale, sull’assistenza dello Stato allo sviluppo economico e sociale. Tutto un mondo che è stato prefigurato sulla carta, ma è lontano dalla realtà. Perché i rappresentanti delle due Repubbliche non cessano di dirsi insoddisfatti delle decisioni della Rada di Kiev e desiderosi di far parte della Federazione russa. Desiderio che Mosca però non si è sentita di condividere pubblicamente;  sembra  per rispettare - almeno finora - gli impegni assunti con Germania e Francia, ovvero con la comunità internazionale, cioè quegli accordi fissati nel documento di Minsk che di fatto poi non intende applicare né far rispettare ai riluttanti leader separatisti, suoi conniventi.