Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Sant’Apollinare a cura di Ermes Dovico

LIBERTÀ RELIGIOSA

Tra Irlanda e Santa Sede prove tecniche di pace

Smontate le accuse contro la Santa Sede che non coprì casi di pedofilia.
Il premier irlandese aveva citato a sproposito l'allora cardinal Ratzinger.

Attualità 05_09_2011
vaticano

Sabato 3 settembre il sotto-segretario vaticano ai rapporti con gli Stati, mons. Ettore Balestrero – che ha molto operato per la soluzione di questa crisi – ha consegnato all’incaricata d’affari irlandesi la risposta della Santa Sede al governo dell’Irlanda a proposito del rapporto sugli abusi di minori da parte del clero della diocesi di Cloyne, pubblicato il 13 luglio scorso. Come ricorderanno i lettori de La Bussola Quotidiana – dove la crisi tra Irlanda e Santa Sede è stata seguita passo per passo, nel suo inizio e nei suoi sviluppi – il 20 luglio il primo ministro irlandese Enda Kenny ha commentato in parlamento il rapporto su Cloyne in un discorso durissimo, mentre due ministri annunciavano la presentazione di un disegno di legge che obbligherebbe i sacerdoti, sotto pena di cinque anni di prigione, a rivelare anche notizie di abusi su minori apprese in confessione. Il 25 luglio la Santa Sede ha richiamato il nunzio apostolico in Irlanda per consultazioni. Il 27 luglio il Parlamento irlandese ha approvato una mozione che censura la Santa Sede in relazione alla vicenda dei preti pedofili.


Il Ministero degli Esteri irlandesi aveva specificamente richiesto alla Santa Sede una risposta scritta al rapporto su Cloyne. Ora questa è arrivata, e le prime reazioni dalla stampa e dal mondo della politica irlandese – benché nessuno voglia fare marcia indietro rispetto alle affermazioni dello scorso luglio – indicano che si tratta almeno di un primo passo verso una pace ragionevole. Nella risposta della Santa Sede c’è appena un accenno al carattere inaccettabile di misure che mettano in discussione il segreto della confessione: evidentemente, il Vaticano spera che si tratti di progetti dettati dall’emozione del momento e destinati a essere quietamente abbandonati. Invece, il documento vaticano riposa su tre capisaldi.


Il primo è la franca ammissione del fatto che in Irlanda sono avvenuti episodi gravissimi e disgustosi di abusi su minori da parte di sacerdoti. La Santa Sede si dichiara «pentita e piena di vergogna per le terribili sofferenze che le vittime degli abusi e le loro famiglie hanno dovuto affrontare». Riconosce le «gravi mancanze nel governo ecclesiastico» da parte di vescovi irlandesi. Afferma di essere pronta ad accogliere «in spirito di umiltà» «tutte le osservazioni e i suggerimenti utili e opportuni per combattere il rivoltante crimine dell’abuso sessuale dei minori». Questa posizione, fa notare la Santa Sede, non è nuova e non è un frutto tardivo del rapporto su Cloyne. È contenuta – preparata da interventi precedenti dello stesso Pontefice – nella Lettera ai cattolici dell’Irlanda del 2010, nella quale Benedetto XVI gridava ai sacerdoti irlandesi colpevoli di abusi che «avete perso la stima della gente dell’Irlanda e rovesciato vergogna e disonore sui vostri confratelli», e ai vescovi ricordava che «alcuni di voi e dei vostri predecessori avete mancato, a volte gravemente, nell’applicare le norme del diritto canonico codificate da lungo tempo circa i crimini di abusi di ragazzi».


Occorre dirlo chiaramente: mai il Papa e la Santa Sede hanno sposato la linea «negazionista» di alcuni vescovi e giornalisti cattolici irlandesi – e non solo irlandesi – secondo cui tutti gli abusi di minori sarebbero inventati dalla propaganda laicista e anticlericale. Quest’ultima esiste, esagera le cifre e formula – come ripete il documento del 3 settembre – «accuse infondate». Ma purtroppo alla radice del problema esiste la tragica e vergognosa realtà dei preti pedofili, che nessuno più di Benedetto XVI ha denunciato come una gravissima ferita alla Chiesa Cattolica e alla stragrande maggioranza dei sacerdoti, che nulla hanno a che fare con gli abusi.


Secondo aspetto del documento: la Santa Sede si rammarica che nelle reazioni a caldo al rapporto su Cloyne non sia stato dato atto degli sforzi della Chiesa di migliorare continuamente gli strumenti del diritto canonico per meglio difendere i minori vittime di abusi. Il documento ne ricostruisce la storia, di cui è parte anche il documento Crimen Sollicitationis che una persistente propaganda – basata su una sua lettura errata – presenta come uno strumento per coprire i preti pedofili, mentre sia la sua versione originaria del 1922 sia quella leggermente modificata del 1962 in realtà creavano per il diritto canonico una normativa più avanzata e severa di quella di molte leggi degli Stati dell’epoca in tema di abusi. Il documento del 2011 continua ricordando il codice di diritto canonico del 1983 e l’indulto per gli Stati Uniti del 1994, esteso all’Irlanda del 1996, che – per questi due Paesi dove i casi di abusi erano più numerosi – allungava i termini di prescrizione fino a dieci anni non dal crimine ma dal compimento del diciottesimo anno da parte della vittima dell’abuso. Il testo fa notare che il rapporto su Cloyne afferma, correttamente, che queste norme erano in vigore al tempo degli abusi che si verificarono in questa diocesi: ma furono violate dalle autorità ecclesiastiche locali.


La risposta al governo irlandese continua rammaricandosi del fatto che nelle reazioni al rapporto su Cloyne non sia stato dato atto delle misure straordinariamente severe introdotte dalla Chiesa Cattolica nel 2001, e rafforzate nel 2010 – con il termine di prescrizione portato addirittura a vent’anni dal compimento del diciottesimo anno di età della vittima, una durata inaudita nel diritto degli Stati europei –, né si sia tenuto conto della letteratura scientifica internazionale la quale mostra che questi severissimi provvedimenti si sono dimostrati efficaci e il numero di abusi si è significativamente ridotto nel XXI secolo rispetto agli ultimi decenni del XX. La Santa Sede, dunque, opera incessantemente per migliorare il diritto canonico, e spesso fa più e fa meglio degli Stati. I suggerimenti per migliorare la sua normativa sono i benvenuti, ma non possono che partire da un’esatta conoscenza della situazione attuale.


Terzo aspetto del documento: sollecitata dal governo irlandese, la Santa Sede è dovuta entrare nei dettagli di una questione tecnica con una lunga spiegazione che alcuni politici irlandesi hanno definito «legalistica e complicata». Ma legalistico e complicato era l’argomento usato contro la Santa Sede. Questa fa ora anzitutto notare che nel suo discorso del 20 luglio il premier irlandese ha citato a sproposito un testo dell’allora cardinale Ratzinger dove il futuro Pontefice affermava che la Chiesa non applica necessariamente a se stessa gli «standard di condotta appropriati per una democrazia». Si tratta di un brano del paragrafo 39 dell’istruzione del 1990 Donum veritatis sulla vocazione ecclesiale del teologo, firmata dall’allora cardinale Ratzinger come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Il documento del 3 settembre riporta il paragrafo per intero, consentendo così a chiunque di rendersi conto che il testo non ha nulla a che fare con il rispetto del diritto penale di Stati democratici come l’Irlanda ma afferma semplicemente che le verità teologiche nella Chiesa non sono votate a maggioranza dai teologi. Per sapere se Cristo è veramente risorto non si convoca un referendum fra i teologi – forse l’esito darebbe qualche sorpresa – proclamando come dogma quanto sarà votato dalla metà più uno dei docenti di teologia. La citazione a sproposito era stata a suo tempo segnalata anche da La Bussola Quotidiana, sospettando dietro questo passaggio del discorso del primo ministro la manina o manona di qualche teologo progressista irlandese ostile al Papa: dopo tutto, la Donum veritatis è un testo di vent’anni fa destinato ai teologi – e inviso a quelli progressisti –, e le possibilità che sia una delle letture preferite di un uomo politico irlandese del 2011 sembrano piuttosto modeste.


L’accusa centrale contenuta nel discorso del premier, cui ora la Santa Sede risponde, si riferisce a una lettera del 1997 in cui l'allora nunzio apostolico in Irlanda, monsignor Luciano Storero (1926-2000), comunicava ai vescovi irlandesi le «serie riserve» della Congregazione del Clero sul modo in cui un documento sugli abusi preparato  nel 1995 da una commissione di esperti per l’episcopato irlandese formulava l’obbligo di denunciare alle autorità civili i casi di pedofilia. Il premier e il Parlamento irlandese accusano la Santa Sede, di avere con questa lettera ostacolato la lotta alla pedofilia in Irlanda in due modi: formalmente, declassando un severo documento dei vescovi irlandesi a semplice «studio» e rifiutando di riconoscerlo, così togliendogli autorità e permettendo a diocesi come quella di Cloyne di non seguirlo; sostanzialmente, dando l’impressione che la Santa Sede non fosse d’accordo sul principio del testo irlandese del 1995 secondo cui ogni sospetto di abuso da parte di un sacerdote andava immediatamente denunciato alle forze dell’ordine. Il problema è tecnico, e la risposta non può che essere tecnica.


La Santa Sede conferma che il documento del 1995 non è un testo ufficiale della Conferenza Episcopale ma il rapporto preparato da una commissione di esperti. Inviandolo per posta al nunzio Storero i vescovi irlandesi spiegavano che il testo «non è stato promulgato come decreto della Conferenza Episcopale né è stato votato e approvato dalla Conferenza»; non era neppure considerato «l’ultima parola sul tema» ma un semplice utile contributo redatto da specialisti. Dunque non è stata la Santa Sede a considerare il testo del 1995 uno «studio» e non un documento ufficiale della Conferenza Episcopale: è stata quest’ultima a presentarlo come mero studio, senza chiedere dunque che ricevesse un riconoscimento (recognitio) vaticano, nozione prevista dal diritto canonico per alcune categorie di documenti ma non certo per i rapporti di commissioni di esperti. La controprova, se ce ne fosse bisogno – fa notare ora la Santa Sede –, è che il nunzio era stato perfino avvisato che il copyright sul testo non apparteneva ai vescovi ma alla commissione di esperti, che dunque rivendicava il diritto d’autore e una royalty in caso di pubblicazione.
 

La Santa Sede fa poi notare che la Chiesa non funziona come una multinazionale che ha una sede centrale (il Vaticano), delle filiali nazionali (le Conferenze Episcopali) e degli sportelli (le diocesi). Ogni singolo vescovo è un successore degli apostoli, e a lui incombe la prima responsabilità per il buon funzionamento e l’amministrazione della giustizia nella sua diocesi. E ogni singolo vescovo ha un rapporto diretto con il Papa, che è aiutato ma non sostituito dalle Conferenze Episcopali. Anche qui – il commento è mio, non del documento vaticano – il governo irlandese sembra farsi un’idea dello statuto teologico delle Conferenze Episcopali che corrisponde a una certa teologia progressista ma non al Magistero di Benedetto XVI. In pratica, comunque, non risulta dal rapporto su Cloyne che la lettera del nunzio Storero sia mai stata citata in quella diocesi nelle controversie che opponevano il vescovo e il suo vicario generale a proposito del rapporto del 1995. Il vescovo si dichiarava favorevole e il vicario contrario al rapporto, ma di fatto nessuno lo applicò.


Dal punto di vista sostanziale, quello che interessa oggi al governo irlandese della lettera di Storero è che erano sollevati dubbi su uno dei consigli degli esperti: quello di denunciare immediatamente alla gendarmeria qualunque sacerdote accusato – da chiunque – di abusi su minori, anche prima di qualunque verifica. La Santa Sede fa notare che all’epoca (1996) questo consiglio aveva un dubbio statuto non solo dal punto di vista del diritto canonico ma anche dal punto di vista del diritto dello Stato irlandese. Puntigliosamente, il documento vaticano riporta documenti non solo precedenti ma anche successivi alla lettera di Storero in cui il governo irlandese precisava che l’obbligo di denuncia immediata di possibili abusi – non solo per i vescovi ma anche per i medici, i dirigenti scolastici e altri – non esisteva nel diritto dell’Irlanda, né si riteneva opportuno introdurlo perché gli esempi degli Stati Uniti mostravano con quanta facilità si rovinava in modo irreparabile il buon nome di accusati che poi risultavano innocenti. Se i vescovi, prima di qualunque indagine e sulla base magari di una semplice accusa malevola o isolata, avessero denunciato immediatamente i propri preti alla polizia non solo avrebbero agito in modo moralmente discutibile ma avrebbero violato la legge dello Stato irlandese dell’epoca, esponendosi ad azioni penali per calunnia e civili per il risarcimento del danno agli accusati che poi fossero risultati innocenti.


Solo a partire dal 1999 – a fronte di casi di eccezionale gravità – il governo irlandese ha cambiato la sua legislazione, introducendo un obbligo di denuncia anche di semplici accuse preliminari, accompagnato da una protezione della privacy degli accusati nella prima fase dell’inchiesta, per quanto questa protezione come sappiamo bene anche in Italia non sempre funzioni. La Chiesa Cattolica si è prontamente adeguata a queste nuove norme, e la stessa Santa Sede ha raccomandato ai vescovi irlandesi di cooperare con le autorità civili e di non sottrarsi agli obblighi di denuncia. Se nella diocesi di Cloyne, o altrove, questo non è avvenuto, le autorità locali hanno disubbidito alla Santa Sede e non seguito le sue indicazioni. Quanto al defunto nunzio Storero, è difficile accusarlo di non avere citato o rispettato nel 1996 norme dello Stato irlandese che sarebbero state introdotte solo – in tre stadi successivi – nel 1999, 2001 e 2004. Oggi la Santa Sede riafferma la sua volontà di rispettare le leggi presenti e future, con il solo limite – sta qui il solo accenno alle recenti proposte – del segreto della confessione.


Il documento, dunque, mette qualche puntino sulle i, com’è giusto che sia. Ma il lettore che vuole davvero comprendere la posizione della Santa Sede sulla crisi dei preti pedofili deve sempre notare come questa cammina su due gambe. Da una parte, si contestano le «accuse infondate», che spesso vengono purtroppo anche dall’interno della Chiesa: da ambienti ostili al Papa per ragioni che hanno poco a che fare con i preti pedofili e molto con il suo Magistero teologico e morale, che influenzano o anche manipolano i politici. Dall’altra, si riafferma la volontà di Benedetto XVI di riconoscere nella vergogna e nella penitenza che quello dei preti pedofili è un problema del tutto reale e gravissimo, da affrontare con gli strumenti del diritto canonico, della ricerca delle cause affidata alle scienze sociali, ma anche della preghiera e del rinnovamento spirituale. Su questo terreno – passato il tempo delle emozioni – potrà scoppiare la pace anche con l’Irlanda.