Tra corruzione e jihadismo: ecco il Kenya che attende il Papa
Domani papa Francesco partirà per Nairobi, Kenya, prima tappa del suo viaggio in Africa. Nei due giorni successivi è previsto un fitto programma di incontri ed eventi. Attesi sono in particolare quelli con i giovani che il Pontefice incontrerà due volte: il 26 novembre, nel campus dell’Università di Nairobi dove celebrerà una messa, e la mattina del 27, allo stadio Kasarani.
Domani, 25 novembre, papa Francesco partirà per Nairobi, Kenya, prima tappa del suo viaggio in Africa. Nei due giorni successivi è previsto un fitto programma di incontri ed eventi. Attesi con grande entusiasmo sono in particolare quelli con i giovani che il Pontefice incontrerà due volte: il 26 novembre, nel campus dell’Università di Nairobi dove celebrerà una messa, e la mattina del 27, presso lo stadio Kasarani. Un altro momento di speciale emozione e significato sarà la visita allo slum di Kangemi.
Nairobi conta almeno quattro milioni di abitanti, oltre metà dei quali vivono in condizioni di povertà e degrado estreme ammassati in slum che complessivamente occupano solo il 5% dell’area metropolitana, quasi del tutto privi di infrastrutture e servizi, eppure situati a poca distanza dai ricchi quartieri residenziali e dal centro cittadino, orgoglio del Paese per i suoi grattacieli, i suoi centri commerciali, i moderni palazzi sede di organi di governo, ambasciate, organismi internazionali, imprese locali e straniere.
Quella in Kenya può sembrare la meno problematica delle tre tappe del viaggio di papa Francesco che proseguirà in Uganda e si concluderà nella Repubblica Centrafricana, teatro di una guerra civile che dura ormai da due anni. Nell’Isu, l’Indice di sviluppo umano dell’Onu, il Kenya figura 147°, a un passo dall’essere inserito tra i Paesi a medio sviluppo. Decisamente peggiore è la situazione dell’Uganda che è 164° e della Repubblica Centrafricana, uno dei tre Stati più poveri del mondo, 185° nell’Isu, seguito solo dalla Repubblica Democratica del Congo e dal Niger. Ma sotto le apparenze di sviluppo che la capitale ostenta, c’è una realtà di povertà diffusa, come dimostrano i grandi slum di Nairobi e di altre città.
Il 43,37% dei kenyani vive sotto la soglia di povertà, vale a dire con meno di 1,25 dollari al giorno, il 33,6% della popolazione occupata dispone di meno di due dollari al giorno, il 25,9% dei bambini lavora, il tasso di disoccupazione è del 25% (ma alcune stime lo collocano al 40%). La speranza di vita alla nascita è di 61,7 anni, il tasso di mortalità materna è di 510 su 100.000 nascite, il sistema sanitario offre 20 medici e 140 posti letto ogni 100.000 abitanti. Sono i livelli di corruzione sfrenata, in ogni settore e a tutti i livelli, a rendere difficile la vita a tanti kenyani, nonostante un buon tasso di crescita del Prodotto interno lordo (4,6% nel 2012, 5,7 nel 2013, 5,3% nel 2014). Domani papa Francesco verrà accolto da un presidente, Uhuru Kenyatta, che figura tra i quattro più ricchi capi di Stato africani, con un patrimonio personale valutato in almeno 500 milioni di dollari. Sua mamma, Ngina, a sua volta è una delle tre più ricche donne d’Africa.
Né Uhuru né prima di lui suo padre Jomo Kenyatta, eroe della lotta per l’indipendenza e primo presidente del Paese, sono diventati milionari – è superfluo dirlo – risparmiando sul loro stipendio di capi di Stato e investendo oculatamente il denaro messo da parte. Peraltro in Africa c’è chi ha fatto di meglio, o di peggio. Il presidente africano più ricco, José Eduardo dos Santos, al potere in Angola dal 1979, ha un patrimonio di 20 miliardi di dollari e sua figlia Isabel è stata la prima donna africana a diventare miliardaria e, con una fortuna personale di 3,8 miliardi di dollari, oggi è la donna più ricca di tutto il Continente. Ma la ricchezza non è la peggior colpa di Uhuru Kenyatta.
Il Pontefice tra qualche giorno stringerà la mano e riceverà doni da un uomo che la Corte penale internazionale ha perseguito per crimini contro l’umanità, accusato di aver istigato le gravi violenze etniche seguite alle contestate elezioni presidenziali del 2007 che provocarono 1.300 morti e circa 600.000 profughi. Degli stessi reati è incriminato anche il suo attuale vicepresidente, William Ruto. Quest’ultimo è in attesa di giudizio. Il processo di Kenyatta invece è stato archiviato un anno fa dalla Corte penale internazionale dopo che tutti i testimoni dell’accusa avevano ritrattato impauriti da minacce e intimidazioni e perché il governo del Kenya aveva reiteratamente rifiutato di consegnare ai giudici il materiale necessario a svolgere le indagini. È molto probabile che anche il processo a Ruto venga archiviato per le stesse ragioni.
«Uhuru è finalmente libero» (un gioco di parole: in lingua swahili “uhuru” vuol dire libertà): il Paese aveva esultato alla notizia dell’archiviazione lo scorso 5 dicembre 2014, lo stesso Paese che un anno prima aveva eletto Uhuru Kenyatta presidente al primo turno, nonostante l’incriminazione e il processo che allora era ancora in corso. Se il profilo di Kenyatta, Ruto e di altre personalità che incontreranno il Papa è motivo di imbarazzo, un serio motivo di preoccupazione è quello della sicurezza. Il Kenya da molti anni ospita infatti cellule di terroristi: l’attentato di al Qaida all’ambasciata degli Stati Uniti, con oltre 200 morti e 4.000 feriti, risale al 1998.
Negli ultimi anni numerosi attentati sono stati compiuti dai jihadisti somali al Shabaab. Uno dei più cruenti è stato quello messo a segno all’università di Garissa, costato la vita a 148 studenti cristiani. Gli al Shabaab, inoltre, in Kenya reclutano nuove leve a centinaia, specie tra i giovani delle comunità islamiche di Nairobi e della costa e tra le centinaia di migliaia di profughi somali, in fuga da oltre 20 anni dal loro paese in guerra.