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EDITORIALE

Testimonianza del Papa e nuovi integralismi

La testimonianza del Papa tra gli immigrati costringe tutti a riconoscere che al fenomeno non corrispondono numeri ma persone. Ma tradurre automaticamente in ricetta politica queste parole e questi gesti è una nuova forma di integralismo che fa il male degli stessi migranti.
LETTERA/ Chiedo scusa, ma non capisco..., di R. Cammilleri

Editoriali 20_04_2016
Profughi a Lesbo

Dopo la visita di sabato all’isola di Lesbo, ieri il videomessaggio ai rifugiati accolti dal centro Astalli di Roma, in occasione del 35esimo anniversario della fondazione del centro voluto dai gesuiti. Non c’è dubbio che il tema “rifugiati” sia al cuore di questo pontificato. E tra le tante sottolineature possibili, almeno due è bene riproporle.

Anzitutto, il Papa ricorda a tutto il mondo che quando si parla di migrazioni si parla di persone, di volti e storie ben precise e non di problemi astratti, o semplici fenomeni statistici. È un aspetto che si tende sempre a dimenticare, soprattutto quando il fenomeno assume proporzioni come quelle attuali anche a causa della cecità di governi e organizzazioni internazionali che per tanto tempo non hanno voluto vedere quanto stava maturando. In questo la testimonianza del Papa implica un cambiamento di prospettiva: un problema lo si può trattare a tavolino, magari con competenza, ma sempre guardando a qualcosa esterno a noi, che alla fine non c’entra con la nostra vita. Dover fare i conti direttamente con la sofferenza delle persone, con delle storie di violenza, morte, paura mette in discussione noi stessi. «La vostra esperienza di dolore e di speranza – ha detto ieri il Papa ai rifugiati del Centro Astalli - ci ricorda che siamo tutti stranieri e pellegrini su questa Terra, accolti da qualcuno con generosità e senza alcun merito». Parole da tenere sempre presenti.

Il secondo aspetto è collegato al primo: «Non siete soli», ha detto papa Francesco sabato ai profughi siriani presenti a Lesbo, testimoniando in prima persona la sua vicinanza, riflesso di una compagnia più grande: Dio «nelle nostre sofferenze non ci lascia mai soli», ha affermato. La certezza di una compagnia buona, che vuole il nostro bene, che non ci abbandona mai qualsiasi siano le nostre circostanze, è la più grande consolazione che possiamo desiderare, per noi e per gli altri. E siamo chiamati a testimoniarlo. In questo orizzonte si comprende la richiesta di perdono che ieri il Papa ha indirizzato ai rifugiati «per la chiusura e l’indifferenza delle nostre società».

Questo continuo richiamo al dramma dei migranti, questo andare fra di loro obbligando il mondo intero a guardare in faccia i volti di questa sofferenza, non può non generare un approccio diverso a quello che comunque è un problema con cui le nostre società devono misurarsi. La testimonianza del Papa induce a cambiare lo sguardo e i criteri con cui affrontare i diversi fattori legati al fenomeno migratorio. Ma non si sostituisce né si sovrappone alle responsabilità dei laici e delle istituzioni che – come abbiamo scritto tante volte – nell’affrontare la questione devono considerare tutti i fattori in gioco, non ultimo il diritto internazionale che stabilisce chi ha diritto ad essere accolto e chi no. 

Purtroppo c’è una tendenza a tradurre le parole e i gesti del Papa in decisioni politiche automatiche. In questo caso: tutti dentro, senza se e senza ma. È una nuova forma di integralismo, per di più su temi in cui il rispetto per il diritto alla vita dei migranti e lo spirito di accoglienza possono essere legittimamente rispettati da diverse opzioni politiche. Peraltro è lo stesso documento firmato sabato da papa Francesco insieme al Patriarca Bartolomeo e al vescovo Ieronymus che ricorda la priorità di risolvere alla radice, nei paesi di provenienza, i problemi che sono poi la causa di una migrazione obbligata.

Bisogna affermare con chiarezza che non è misericordia e tantomeno giustizia fare di ogni erba un fascio e considerare ogni immigrato alla stessa stregua, come se non ci fosse differenza tra chi fugge dalla guerra in Siria ed Iraq e chi parte da Paesi africani relativamente stabili seppur poveri. Come se non ci fosse differenza, all’interno di uno stesso Paese – vedi ancora Siria e Iraq – tra chi scappa dalla guerra e chi oltre alla guerra ha dovuto subire anche la persecuzione. E come se oltre all’accoglienza non si dovesse pensare anche al dopo, alla possibilità di integrare, facendo perciò differenza tra chi desidera questa integrazione e chi la rifiuta. Ciò non toglie nulla al dovere di soccorrere e assistere, ma questo non si può trasformare automaticamente in diritto all’invasione.

A complicare le cose c’è anche un diffuso terzomondismo nel mondo cattolico che si muove sulla base di slogan invece che di un affronto serio della realtà. Così c’è chi pretende di fondare un presunto obbligo di insediare tutti in Europa sulle responsabilità che l’Europa stessa avrebbe nella povertà e nelle guerre che sono alla base di questo fenomeno. È un discorso sentito ancora in questi giorni in occasione del Convegno nazionale delle Caritas diocesane, così che – ha detto un illustre relatore – l’accoglienza che dobbiamo agli immigrati «è solo un atto di restituzione» visto che siamo causa della loro povertà.

È un falso storico, e tante volte su queste colonne lo abbiamo dimostrato con dati ed esempi e sarebbe qui troppo lungo ritornarci. Ciò non toglie che i Paesi occidentali abbiano la loro parte di responsabilità nell’avere aggravato le situazioni di crisi o semplicemente per averle ignorate, ma è altra cosa dal teorema per cui i poveri sono poveri per colpa dei ricchi. Religioni tradizionali e fondamentalismi, culture tribali, corruzione sono tutti fattori interni che sono la prima causa di povertà e di guerre. Proprio ieri si è avuta la notizia che in una zona remota dell’Etiopia, uomini di una tribù hanno attaccato un villaggio di un’altra tribù massacrando oltre 200 persone per poter razziare il loro bestiame. Sono episodi ricorrenti in Africa, e non c’entrano potenze straniere o trafficanti d’armi.

È solo un esempio, ma fa capire che se si vuole affrontare il problema alla radice, se si vuole davvero il bene delle persone spinte alla fuga, si deve guardare alla realtà per quella che è, non distorta da ideologie che negli ultimi cento anni hanno già provocato decine di milioni di vittime.