Terrorismo suicida, un vero mercato
Per fermare il fenomeno occorre intervenire sull'"offerta", le organizzazioni, e non solo sulla "domanda", i singoli.
Un articolo di Scott Stewart pubblicato il 7 luglio sul sito internazionale di intelligence Stratfor parte dai recenti attentati in Afghanistan, portando l’attenzione in particolare su quello del 28 giugno all'Hotel Intercontinental, per riproporre un vecchio quesito: a che cosa serve il terrorismo suicida? In una logica puramente militare si dovrebbe concludere che serve a poco. Né i talebani né al-Qa'ida negli ultimi anni hanno colpito obiettivi di rilievo, e i loro attentati non hanno cambiato le sorti di guerre in corso. Dal momento che le organizzazioni terroristiche sono composte sì da criminali, ma non da sprovveduti, Stewart suggerisce che lo scopo degli attentati vada cercato al di fuori delle valutazioni strettamente militari, analizzando i benefici che i terroristi possono ottenere sul piano propagandistico e simbolico.
Nel 2004 sono stato coautore insieme al sociologo statunitense Lawrence R. Iannaccone del libro Il Mercato dei Martiri. L’industria del terrorismo suicida, pubblicato dalla casa editrice Lindau (Torino 2004) e che si poneva precisamente questo interrogativo. Io e Iannaccone abbiamo continuato ad approfondire il tema con diversi interventi a congressi, applicando al terrorismo ultra-fondamentalista islamico categorie economiche che distinguono non solo fra costi e benefici ma anche fra domanda e offerta. Noi pensiamo che si debba distinguere fra le motivazioni del singolo terrorista suicida e quelle dell'organizzazione di cui fa parte, e fra la domanda o disponibilità a essere reclutato in un'organizzazione terrorista e l'offerta di reclutamento. Nella stessa chiave, il sociologo iraniano che da anni insegna a Parigi Farhad Khosrokhavar ha distinto nel terrorismo suicida fra "suicidati" che si fanno saltare in aria e "suicidatori" che li organizzano. Confondere domanda e offerta rischia d'indurre in diversi equivoci.
Cominciando dalle motivazioni dei singoli terroristi, naturalmente l'uso della parola "martiri" richiede qualche precisazione. Martyres non facit poena sed causa, dicevano i Padri della Chiesa: si è martiri non per il modo di morire ma per la causa per cui si muore. Dal momento che, come insegna il Magistero della Chiesa cattolica - e come confermano anche solenni dichiarazioni delle Nazioni Unite sottoscritte da (quasi) tutti i Paesi del mondo - il terrorismo è un mezzo sempre illecito a prescindere dal fine al cui servizio dichiara di porsi, il terrorista non è un martire. Anche dal punto di vista islamico, è in realtà molto dubbio che il terrorista suicida abbia davvero diritto al titolo di shahid, martire. Abbiamo pubblicato in appendice a "Il mercato dei martiri" una fatwa di giuristi ultrafondamentalisti sauditi dove si cerca di sostenere che il terrorismo suicida è una forma di martirio, ma abbiamo anche messo in luce come per arrivare a questa conclusione le fonti tratte dal Corano e dalla Sunna devono essere veramente tirate per i capelli.
Tuttavia anche se oggettivamente il terrorismo suicida non è una forma di martirio, soggettivamente per il terrorista lo è. Anzi, intervistando anni fa esponenti di Hamas in Cisgiordania, ho notato che la loro principale preoccupazione è quella di voler essere veramente sicuri che quello che si propongono di fare non sia un suicidio, che sarebbe un gesto proibito dall'islam e li manderebbe all'inferno. E i loro dirigenti li rassicurano con argomentazioni teologiche che, per quanto dubbie - e derivate da fonti originariamente sciite, trasferite non senza difficoltà nel diverso ambiente dottrinale sunnita -, alla fine li convincono.
Dunque il "martire", anche se oggettivamente non è tale, pensa veramente di stare compiendo un atto meritorio dal punto di vista religioso. Abbiamo anche mostrato nel libro del 2004 che le spiegazioni alternative delle motivazioni dei terroristi suicidi fondate sulla povertà e sulla disperazione socio-economica non tengono: molti dei terroristi suicidi sono benestanti. Certo, si può parlare di "disperazione culturale": ma è una categoria talmente vaga che spiega tutto, e dunque rischia di non spiegare nulla. Altri parlano di "lavaggio del cervello" o manipolazione mentale, categorie già di per sé molto controverse (cfr. sul punto il mio Il lavaggio del cervello, realtà o mito?, Elledici, Leumann [Torino] 2002) e che è difficile applicare a un Mohammed Atta (1968-2001) il capo del commando dell'11 settembre 2001, studente universitario laureato a pieni voti ad Amburgo che non aveva mai vissuto in un campo di addestramento o in un ambiente fondamentalista islamico. Gli avranno lavato il cervello solo con i sermoni del venerdì in moschea?
Io e Iannaccone siamo convinti che tutte queste "spiegazioni" siano frutto di un pregiudizio anti-religioso e di un riduzionismo politico o psicologico per cui i fenomeni che si presentano come religiosi "non possono" avere cause religiose. La religione, come diceva Karl Marx (1818-1883), è solo "sovrastruttura" della vera struttura, che per lo stesso Marx è economica mentre per Sigmund Freud (1856-1939) è psicologica. Certo, nessun fenomeno va ridotto a una sola causa, e pretendere che le motivazioni del terrorista suicida siano tutte e soltanto religiose sarebbe ugualmente caricaturale. E tuttavia la religione vi gioca una grossa parte.
Ma distinguiamo, appunto, fra le motivazioni dei singoli e le motivazioni delle organizzazioni. Singoli il cui modo di leggere la religione - in particolare l'islam - li predispone ad atti violenti, fino al terrorismo suicida, ci sono in molte culture, dove è dunque presente una potenziale domanda di arruolamento in un'organizzazione terrorista. Ma non dovunque ci sono le "aziende", le "industrie", che rispondono a questa domanda potenziale offrendo un arruolamento e la possibilità di passare dall'attualità alla potenzialità del terrorismo.
Non c'è un terrorismo islamico in Senegal o in Mali, che sono Paesi con molti musulmani ferventi e anche poveri. Ce n'è pochissimo in Turchia, dove a colpire sono più spesso terroristi islamici stranieri o terroristi di matrice comunista o separatista curda, le cui motivazioni non sono religiose.
C'è un terrorismo in Arabia Saudita - un Paese ricchissimo -, in Egitto, in Indonesia, in Pakistan, nella diaspora italiana, spagnola, francese, tedesca, britannica, perché qui ci sono organizzazioni capaci di reclutare i potenziali terroristi. Naturalmente c'è anche un terrorismo in Afghanistan, Iraq, Palestina, Kashmir: ma non c'è solo in questi Paesi che sono in guerra, anzi al-Qa'ida recluta la maggioranza dei suoi membri in Arabia Saudita, in Egitto e nell'emigrazione islamica in Europa, dunque non in zone di guerra.
Chi pensa che il terrorismo suicida nasca dalla povertà ritiene che "piani Marshall" in grado di eliminare la povertà in Afghanistan, in Palestina o altrove possano risolvere il problema. Chiarito subito che questi piani sono utilissimi e doverosi - ma per altre ragioni -, l'ipotesi che io e Iannaccone abbiamo avanzato è che abbiano poco a che fare con la soluzione del problema terrorismo. Come accennato, molti terroristi - non tutti, naturalmente - vengono da famiglie benestanti o anche da Paesi ricchi. In realtà le soluzioni proposte si concentrano spesso sul togliere dalla testa del singolo terrorista l'idea di diventare un "martire" suicida, cioè suggeriscono d'intervenire sulla domanda. È possibile fare qualcosa su questo piano, ma molto lentamente e con risultati da valutare in tempi lunghissimi.
La nostra ipotesi è che, per molti anni ancora, continueranno a nascere giovani che leggono l'islam in un modo tale da creare nella loro mente e nel loro cuore una domanda di estremismo che può spingersi fino al terrorismo, e questo anche nelle migliori condizioni socio-economiche e in zone non di guerra e dove non ci sono rivendicazioni territoriali o occupazioni occidentali, come l'Arabia Saudita o l'Indonesia (trascuro qui la questione delle isole o aree separatiste dell'arcipelago indonesiano: molti terroristi vengono da Jakarta).
Quello che è possibile ottenere in tempi più rapidi è che questa domanda non incontri un'offerta, cercando di stroncare le organizzazioni che offrono inquadramento e addestramento ai terroristi.
In parte, è possibile stroncarle sul piano militare, un piano che non può essere trascurato come vorrebbero certe "anime belle" del pacifismo. È obbligatorio stroncarle sul piano finanziario e delle somme di denaro che continuano a ricevere troppo facilmente, talora attraverso organizzazioni "umanitarie" che fanno da paravento ai terroristi. Qualunque discorso sul terrorismo in Afghanistan non può trascurare il suo collegamento con il commercio internazionale della droga e con la malavita organizzata di diversi Paesi. Se non si cerca di tagliare questi legami, il terrorismo afghano ha un lungo futuro davanti a sé.
Le organizzazioni terroriste non compiono attentati per il gusto di farli o perché sono mosse da una volontà di distruzione apocalittica. Operano come "industrie del terrorismo" secondo la normale logica aziendale costi-benefici. Si propongono benefici politici e talora li ottengono: Hamas ha fatto fallire più di un piano di pace in Palestina; l'attentato dell'11 marzo 2004 a Madrid ha influito sulle elezioni spagnole di quell'anno in modo decisivo; gli attentati afghani vogliono indurre i Paesi occidentali ad affrettare il ritiro e a tornare a casa senza condizioni; e quelli in India – come l’ultimo a Mumbai – regolarmente fanno segnare un passo indietro ai negoziati fra i governi pakistano e indiano per una soluzione pacifica del problema Kashmir.
Nel momento in cui si accorgono che gli attentati suicidi non sono più "convenienti" e non danno risultati - anzi, sono controproducenti - le organizzazioni terroriste cambiano strategia. Per questo una risposta al terrorismo suicida che voglia intervenire sul piano dell'offerta, cioè delle organizzazioni, e non solo su quello della domanda, cioè dei singoli, è - ultimamente - un problema politico.