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CONTINENTE NERO

Terrore jihadista: massacro di cristiani a Nyoto, in Congo

Un altro massacro di cristiani in Congo, per mano delle Adf, le "Forze democratiche alleate", sigla di uno dei più feroci gruppi jihadisti dell'Africa, affiliato allo Stato islamico. Nel villaggio di Nyoto, i terroristi hanno massacrato almeno 72 cristiani. 

Libertà religiosa 11_09_2025
Congo, dopo l'attentato (La Presse)

Le Forze democratiche alleate (ADF), i jihadisti attivi nella Repubblica Democratica del Congo e in Uganda, hanno compiuto una nuova strage di cristiani. La sera dell’8 settembre, intorno alle 21, hanno attaccato Nyoto, un villaggio della provincia orientale del Nord Kivu, in Congo. Erano una quarantina – raccontano i sopravvissuti – armati di machete e di armi da fuoco. Hanno bruciato delle automobili e diverse abitazioni, chi dice 15 chi 30. Poi hanno fatto irruzione in una casa nella quale numerosi cristiani si erano riuniti per partecipare a una veglia funebre e ne hanno fatto strage. Le forze dell’ordine allertate sono arrivate, come succede quasi sempre, quando ormai i jihadisti si erano dileguati. Dai primi riscontri sono risultati 61 morti, poi 72 e il bilancio finale potrebbe essere ancora più alto. Tra le vittime ci sono donne e bambini, intere famiglie sono state sterminate. Le condizioni dei corpi finora rinvenuti indicano che la maggior parte delle vittime sono state uccise a colpi di machete.

Le Adf nel 2016 hanno giurato fedeltà all’Isis, lo Stato Islamico, e dal 2019 fanno parte dell’Iscap, la Provincia dell’Africa centrale dello Stato Islamico, insieme ad Ansar al-Sunna che opera dal 2017 nel nord del Mozambico. Come sua consuetudine, l’Isis ha rivendicato la strage vantandosi di aver ucciso quasi 100 cristiani. Lo fa sempre, di rivendicare i propri attentati: per far sapere al mondo che cosa è in grado di fare, per sfidare le autorità locali e irridere alle forze dell’ordine, perché il suo nome si imprima nelle menti delle popolazioni perseguitate e sappiano di quanta ferocia i suoi uomini sono capaci. Lo fa anche per dimostrare di essere più audace, determinato e potente di al Qaeda e dei gruppi jihadisti ad essa affiliati. Gli serve per reclutare nuove leve di giovani sottraendole al jihad rivale, per indurre gruppi armati e bande di criminali locali a ritenere conveniente stringere alleanze con i suoi jihadisti, a scapito di quelli di al Qaeda, e infine per ottenere che autorità, agenti di polizia e militari siano riluttanti a intervenire e siano piuttosto invogliati a farsi complici e a partecipare così agli introiti che i jihadisti ricavano dai territori sui quali riescono a imporre il controllo: nel caso del Nord Kivu e delle altre province orientali del Congo, le loro immense risorse minerarie.

Le Adf si erano formate tra il 1995 e il 1996 in Uganda, sotto la guida di un leader islamista, Jamil Mukulu, per combattere contro il governo. Da oltre 20 anni però hanno trasferito le loro basi nell’est del Congo ed è lì che compiono la maggior parte delle loro azioni, e quelle più devastanti: attentati, attacchi a chiese e strutture religiose, razzie. Quello dell’8 settembre, a Nyoto, è uno dei loro attacchi più gravi. Segue di poche settimane quello alla chiesa cattolica di Komanda, nella vicina provincia di Ituri, nella notte tra il 26 e il 27 luglio. Nella chiesa c’erano molti fedeli convenuti per una veglia notturna di preghiera. Alcuni si stavano preparando a ricevere la cresima di lì a poche ore. Decine di persone, almeno 43 inclusi nove bambini, sono state uccise a colpi di arma da fuoco e di machete all’interno della chiesa e nei pressi. Altre sono morte nell’incendio delle case e dei negozi ai quali i terroristi, dopo averli saccheggiati, hanno dato fuoco prima di andarsene. È stato in un’altra chiesa, quella protestante di Kasanga di nuovo nel Nord Kivu, che a febbraio le Adf hanno compiuto un’altra strage. Vi hanno rinchiuso per diversi giorni, legati, 70 abitanti di un villaggio e poi li hanno uccisi a martellate e a colpi di machete. Il 14 febbraio le forze dell’ordine ne hanno rinvenuto i corpi straziati.

Chi sopravvive agli attacchi, se solo può, scappa, cerca rifugio nei centri urbani maggiori e nei campi profughi allestiti nella regione dove spera di essere al sicuro. Soprattutto a partire dallo scorso anno, il flusso degli sfollati è aumentato con l’intensificarsi degli attacchi. L’Isis insieme all’attentato dell’8 settembre ne ha rivendicati altri cinque recenti, contro dei civili cristiani e contro basi militari congolesi e ugandesi. Uno di questi, il giorno successivo, è stato messo a segno nei pressi di Beni, sempre nel Nord Kivu, una città di oltre 200mila abitanti, dove altri 18 cristiani sono stati uccisi.

Il governo congolese ha dichiarato in un comunicato diffuso nei giorni successivi di aver fornito al governo del Nord Kivu tutto il supporto necessario nella gestione delle conseguenze di carattere umanitario derivanti dagli attacchi terroristici. Ha anche detto di “rimanere fermamente impegnato a proseguire le operazioni militari e la caccia ai terroristi”, operazioni che secondo il governo congolese “hanno già portato alla eliminazione di molti di loro, alla distruzione di diverse basi jihadiste e al rilascio di molti civili rapiti”.

Ma i fatti invece dimostrano l’inefficacia delle misure adottate. Il centro studi International Crisis Group, interpellato sulla situazione e sulle prospettive, replica, a ragione, che il risultato dei deboli, discontinui e scoordinati interventi governativi è stato soltanto di disperdere il gruppo, come è già successo in passato. Divisi in unità più piccole, i jihadisti hanno continuato a colpire. “È quello che potrei definire il fenomeno di ‘calciare un formicaio” – spiega Onesphore Sematumba, un ricercatore del centro studi – il gruppo si è temporaneamente disperso sul territorio e agisce con tutta la rabbia possibile tramite gruppi omicidi”.