Tenco, l'impegno e le rose. Ma Sanremo vale una vita?
Il 27 gennaio di 50 anni fa il cantautore si suicidò dopo l'eliminazione da Sanremo. Impegnato, ma non comunista. Però dovette piegarsi al “commerciale”. La sua morte fu un atto di protesta contro l'ingresso in finale di canzoni come Io, tu e le rose, simbolo di un'italietta disimpegnata. Requiem. Ma Sanremo valeva una vita?
Quelli che hanno la mia età si ricorderanno di certo di Mal, il cantante inglese che trovò l’America in Italia insieme al complessino The Primitives col brano Yeeeeeh!, il cui testo era il massimo del commerciale («…ma io non devo bruciarmi con una come te…»). Tanto per cambiare, era la versione italiana di un pezzo degli americani Young Rascals dal titolo interminabile. Be’, vi stupirà sapere che quelle parole le aveva scritte Luigi Tenco.
Quest’anno cade il cinquantenario della sua morte (si sparò il 27 gennaio 1967) e ancora viene celebrato come il massimo del cantautorificio «impegnato». Poiché a quel tempo avevo sedici anni e possedevo tutti i suoi dischi, mi sento di dire che, a mio avviso, si tratta di un autore sopravvalutato. Il suo orizzonte culturale era quello dell’esistenzialismo sartriano come per De André e tutti gli altri della cosiddetta «scuola genovese». Certe sue canzoni potevano benissimo venir suonate in un bistrot parigino e danzate al ritmo di java da apaches locali (tutta nomenclatura di quell’ambiente), come per esempio Io sì.
Altre erano sdilinquimenti che rasentavano (e talvolta superavano) il banal grande (p.e. Ti ricorderai di me). Tutta la suddetta «scuola», arrivato il Sessantotto, non si fece pregare e si buttò nella «protesta». De André, anarchico dichiarato, si lanciò nel rimprovero ai comunisti di non avere approfitto per fare finalmente la rivoluzione (lp Storia di un impiegato);
Tenco, che pare fosse iscritto al Psi, non aveva la stessa stoffa, e la sua Cara maestra non brillava per originalità filosofica. Ecco alcuni versi: «Cara maestra/ un giorno ci insegnavi/ che in questo mondo noi/ siamo tutti uguali/ però quando entrava in classe il professore/ tu ci facevi alzare tutti in piedi/ e quando entrava in classe il bidello/ ci permettevi di restar seduti…». Ben più «arrabbiata» E se ci diranno, inno contro il razzismo declamato a un popolo, gli italiani, che non aveva mai visto un negro. Il resto era operaismo (Vedrai vedrai) o depressione allo stato puro (Un giorno dopo l’altro). E’ vero, in confronto ai testi delle canzoni (italiane) dell’epoca bastava poco a guadagnarsi la qualifica di «impegnato», ma è anche vero che l’industria della canzone di massa (cioè, canzoni sfornate in scala industriale e, dunque, governate dal «mercato») muoveva allora i suoi primi passi, e i discografici tiravano a far soldi.
Non è che mancassero i cervelli (basti pensare ai testi delle canzoni di Fred Buscaglione o alle traduzioni di Asterix fatte da Marcello Marchesi), ma se In ginocchio da te vendeva milioni di copie l’industriale faceva i suoi conti. E pure Tenco doveva campare, come abbiamo visto a proposito di Yeeeeeh! Il brano che ne provocò il suicidio era stato da lui pensato inizialmente come ispirato alla risorgimentale poesia La spigolatrice di Sapri («…eran trecento, eran giovani e forti…»), ma divenne Ciao amore ciao, titolo che è il massimo del «disimpegno». Per giunta, il testo propone la trita storia del contadino che va in città per la prima volta e rimane sbigottito, roba, insomma, da Totò e De Filippo a Milano.
Molte illazioni sono state fatte sulla morte di Tenco, così come vengono regolarmente fatte a ogni suicidio di cantante famoso, ma il biglietto che lasciò accanto alla pistola (la famosa Walther dei successivi Anni di Piombo) non lascia dubbi. Lo riporto: «Ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale e una commissione che seleziona La rivoluzione (allegro brano eseguito da Gianni Pettenati e Antoine, ndr). Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao, Luigi».
Per la povera Orietta Berti (Io, tu e le rose) fu l’inizio di un calvario virtuale perché, eseguendo canzoni come Finchè la barca va, fu presa come testa di turco da tutti i sessantottini in servizio permanente effettivo, che la elessero a modello della disprezzata (da loro) Italietta democristiana. E giù a magnificare Guccini, Mikis Teodorakis e gli Inti Illimani. Cioè, la versione musicale di Gramsci ad uso del proletariato. Si pensi che gli Aphrodite’s Child non vennero più a esibirsi in Italia perché, essendo greci, venivano accusati di non fare canzoni di protesta contro il regime dei Colonnelli. A conti fatti Luigi Tenco è stato preso a simbolo, ma solo perché De André è morto dopo e di semplice malattia, e Guccini è sempre vivo. Noi, da cattolici osservanti, diciamo un requiem, ma non possiamo non chiederci, sommessamente, se Sanremo valga una vita.