Tangentopoli fu colpo di Stato. Lo dicono le toghe
Ascolta la versione audio dell'articolo
La rivelazione sorprendente di Tangentopoli come golpe mediatico-giudiziario arriva da uno dei protagonisti dell'inchiesta Mani Pulite: il giudice Gherardo Colombo. La furia giacobina di quelle toghe ha distrutto la Prima Repubblica con l’intento di costruirne un’altra governata da un'altra forza politica: la sinistra
Dopo più di trent’anni dallo scoppio di Tangentopoli, che ha segnato il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, si continua ancora a parlare della sua genesi. Gli interrogativi insoluti riguardano tanti aspetti dell’inchiesta di Mani Pulite, a cominciare dall’effettiva imparzialità di chi l’ha condotta. Fu davvero una libera iniziativa della Procura di Milano, senza pressioni dall’estero o dalla politica nazionale? I giudici del pool milanese erano animati da sincero senso del dovere o cavalcarono l’onda giustizialista per manie di protagonismo e ambizioni personali?
Forse è ancora presto per attendersi risposte. Ci vorranno magari ancora alcuni decenni prima che la verità possa emergere. La storia si incarica nel tempo di sciogliere nodi insoluti e chiarire aspetti controversi, ma quando ci sono di mezzo i burrascosi rapporti tra giustizia, politica e informazione diventa ancora più difficile smascherare le possibili trame occulte tra poteri.
A proposito di Tangentopoli, però, qualcosa sembra muoversi. Nei giorni scorsi uno dei giornali più garantisti del panorama editoriale italiano, Il Riformista, ha aperto con un titolo a effetto: “Nel ’92 fu colpo di Stato. Le clamorose rivelazioni dell’ex pm Colombo”. Occhiello: “La Procura propose la resa alla classe politica (alla Dc?) offrendo impunità in cambio di dimissioni”.
Lo spunto per quel titolo arriva dal libro L’ultima Repubblica, opera postuma di memorie di Enzo Carra, l’ex portavoce del dc Arnaldo Forlani morto il 2 febbraio scorso, e divenuto noto ai più per l’immagine che lo ritrae con gli schiavettoni ai polsi durante il suo arresto a Milano nel febbraio del 1993. Quella foto è una delle immagini simbolo di Tangentopoli, l’emblema della gogna giustizialista ai danni di politici che in moltissimi casi erano colpevoli di aver intascato tangenti in cambio di favori, ma in tante altre situazioni venivano coperti di fango mediatico solo perché ricoprivano dei ruoli di responsabilità nei partiti della Prima Repubblica.
Ma la notizia eclatante non è tanto il libro di Carra, di cui si sapeva. A fare molto rumore sono le parole di una delle figure di punta di Mani Pulite, Gherardo Colombo, autore dell’introduzione a quel volume. Colombo è stato l’unico degli appartenenti al pool di magistrati milanesi di quella stagione ad aver rivisto le sue posizioni. «Eppure - scrive Colombo - non una persona sarebbe andata in carcere se, come suggerito nel luglio 1992, ben prima (data la rapidità dell’evolversi di quegli eventi) della nomina di Martinazzoli, la politica avesse scelto di seguire la strada dello scambio tra ricostruzione dei fatti ed estromissione dal processo. Chi avesse raccontato, restituito e temporaneamente abdicato alla vita pubblica non avrebbe più avuto a che fare con la giustizia penale».
In altri termini, quelle inchieste si alimentarono sulla base di un ricatto bello e buono: ai politici che accettavano di confessare i propri delitti e che promettevano di sparire dalla circolazione veniva garantita l’impunità. Una sorta di trattativa segreta Stato-Tangentopoli, «ovviamente del tutto illegale», precisa l’ormai ex direttore del Riformista, Piero Sansonetti. Che fosse quello il modus operandi della Procura di Milano non v’erano, in realtà, dubbi, neppure all’epoca. Che la custodia cautelare venisse utilizzata sistematicamente come strumento per estorcere confessioni era noto: chi non parlava restava in carcere. I magistrati con queste forzature erano i primi a non rispettare la legge, ma la gente in piazza li incoraggiava ad andare avanti nel perseguimento dei reati della classe politica. Un moto di ribellione popolare che si traduceva in striscioni come quello con sopra scritto: “Di Pietro arrestali tutti”.
Gli avvisi di garanzia venivano comunicati in anticipo ai giornalisti, che li sparavano in prima pagina a caratteri cubitali. Gli indagati a tarda sera facevano la fila alle edicole per comprare una copia del quotidiano del giorno dopo e verificare che non fossero in arrivo altri avvisi di garanzia. Un paradosso tutto italiano che servì a qualificare la nostra Repubblica come giustizialista.
I clamorosi retroscena raccontati dall’ex pm di Mani Pulite Gherardo Colombo nel libro di Carra sono la riprova di quanto fosse perverso il rapporto tra giustizia, politica e informazione in quegli anni. Che ci fosse un meccanismo collaudato di finanziamenti occulti alla politica non v’è dubbio, ma è altrettanto innegabile che ci furono molti abusi nella gestione delle inchieste e che la sinistra fu in molti casi graziata, mentre la persecuzione giudiziaria riguardò soprattutto Democrazia cristiana e Partito socialista. Ma la questione della trattativa andata a monte la dice lunga sulle ragioni ispiratrici delle inchieste. Se i politici del vecchio pentapartito si fossero fatti da parte dopo le prime accuse del pool, non ci sarebbero state manette, processi, condanne e si sarebbe realizzato un ricambio politico con l’avvento della sinistra al potere. La trattativa fallì solo perché i politici non cedettero e resistettero asserragliati nei Palazzi, fino a quando comunque capitolarono perché gran parte di essi finirono nel tritacarne mediatico-giudiziario. Tornano alla mente le parole scritte da Sergio Moroni all’allora presidente della Camera, Giorgio Napolitano, prima di spararsi: “Non mi è estranea la convinzione che forze oscure coltivino disegni che nulla hanno a che fare con il rinnovamento e la pulizia”.
Dunque la furia giacobina di quelle toghe ha distrutto la Prima Repubblica con l’intento di costruirne un’altra governata da altre forze politiche. Un golpe mediatico-giudiziario che avrebbe meritato ben altro esito e che, in ogni caso, non è riuscito ad abbattere chi, come Silvio Berlusconi, si oppose fin da subito a quelle logiche. Se però a dire queste cose oggi è addirittura uno dei carnefici dell’epoca significa davvero che la verità su Tangentopoli non era quella raccontata in quegli anni dai media.