Talk show spazzatura. Renzi fa il verso a Berlusconi
I suoi bersagli preferiti sono Giovanni Floris e Massimo Giannini, anche se non li nomina. Lunedì, durante il suo intervento alla direzione del Pd, il premier è tornato ad attaccare i talk show, in particolare quelli del martedì. Oltre dieci anni fa era stato l’ex premier Berlusconi a tentare di “addomesticare” alcuni conduttori.
I suoi bersagli preferiti sono Giovanni Floris e Massimo Giannini, anche se non li nomina. Lunedì, durante il suo intervento alla direzione del suo partito, il premier è tornato ad attaccare i talk show, in particolare quelli del martedì: «Se fanno meno della replica numero 107 di Rambo dobbiamo riflettere. Evidentemente tra trame conosciute si va verso quella scritta meglio, quella americana». E ha rincarato la dose parlando di «racconto pigro e mediocre della realtà fatto dai talk show». Ai colleghi di partito che lamentavano gli attacchi subiti dal Pd e dal governo da esponenti delle opposizioni in Tv, Renzi ha sostanzialmente risposto con un «lasciateli fare» e ha aggiunto: «Il punto vero è che il racconto del Paese non può essere quello che va così da dieci anni, con la solita musichina, in cui va tutto male. Le cose che vanno male si cambiano».
Gli ultimi strali lanciati dal segretario del Pd contro le trasmissioni di approfondimento politico fanno seguito a un suo tweet di otto mesi fa, altrettanto lapidario: «Trame, segreti, finti scoop, balle spaziali e retropensieri: basta una sera alla Tv e finalmente capisci la crisi dei talk show in Italia». Peccato che a registrare share modesti siano state anche alcune sue apparizioni, come quella a Parallelo Italia, trasmissione durante la quale il conduttore Gianni Riotta intervistò il premier, ma senza registrare quel boom di ascolti che qualcuno sognava. E allora c’è un problema più generale, quello della gestione dei talk show. Anche Porta a Porta, a vent’anni dal suo lancio, mostra più di una ruga, e l’episodio della discutibile e assai discussa puntata sui Casamonica ha fatto definitivamente suonare il campanello d’allarme. Si tratta di format che probabilmente andavano bene in un’epoca di forti contrapposizioni ideologiche e politiche, ai tempi della Prima Repubblica e anche durante il ventennio berlusconiano, contrassegnato dalla polarizzazione dello scontro tra “pro” e “anti”.
La melassa delle larghe intese, dei premier incoronati senza investitura popolare e dei governi tecnici degli ultimi anni, ha fatto lentamente evaporare l’interesse della collettività verso trasmissioni di quel tipo, che andrebbero quindi svecchiate e adattate a un panorama politico-istituzionale in profonda trasformazione, peraltro fortemente condizionato dalla tecnologizzazione crescente dei media. Ma Renzi farebbe forse meglio a non aizzare i conduttori di trasmissioni come Ballarò o Di martedì, che un loro pubblico ce l’hanno e che intrattengono le serate di qualche milione di italiani di mezza età o di pensionati. Oltre dieci anni fa era stato l’ex premier Silvio Berlusconi a tentare di “addomesticare” alcuni conduttori, da lui accusati di nutrire un’avversione preconcetta nei suoi confronti. Certa propaganda di sinistra prese la palla al balzo per agitare lo spettro della censura di regime e le parole di Berlusconi divennero per lui un boomerang. Fu preso di mira dalla grande stampa che non gli perdonò nulla e si arrogò il diritto di pronunciare sentenze nei suoi confronti anche rispetto a vicende private tutte da chiarire.
Con obiettività molti osservatori di sinistra ammisero un accanimento mediatico con pochi precedenti nella storia della Repubblica. Il “caso Berlusconi” o i “casi Berlusconi” rappresentano innegabilmente esempi di processi mediatici con studi televisivi trasformati in aule di tribunale per pronunciare verdetti che hanno finito probabilmente per influenzare le sentenze dei giudici. Oggi il clima è cambiato e Renzi è comunque un esponente della sinistra. Più imbarazzante, quindi, per la stampa vicina a quell’area politica attaccare un proprio rappresentante su un tema così sensibile come quello della libertà d’informazione. L’ex sindaco di Firenze mostra una certa insofferenza nei confronti di trasmissioni che dipingono scenari a tinte fosche sul piano economico e sociale, contrastando indirettamente i proclami trionfalistici di Palazzo Chigi e generando negli italiani una discreta dose di disillusione. Sarebbe in ogni caso opportuno che gli addetti ai lavori riflettessero sull’utilità degli attuali talk show.
La faziosità di alcune trasmissioni è sotto gli occhi di tutti. Voler far prevalere tesi precostituite significa truffare il pubblico e orientarne i punti di vista e questo un giornalista non dovrebbe farlo. Consentire a ospiti indisciplinati di monopolizzare il dibattito in studio, anche con volgarità, bassezze, insulti e urla, è l’antitesi del concetto di servizio pubblico, ideale che dovrebbe essere inseguito e attuato sia dalla Rai che dalle altre emittenti. Le modalità di conduzione, la scelta degli ospiti e dei temi da affrontare dovrebbero rappresentare criteri qualitativi imprescindibili, da inserire in una riforma della par condicio che valga anche per le trasmissioni di approfondimento politico e a prescindere dall’imminenza di appuntamenti elettorali. E sul piano deontologico la Carta dei doveri del giornalista e i Codici varati d’intesa con le emittenti radiotelevisive, ad esempio quello del maggio 2009 sui processi mediatici, dovrebbero essere maggiormente applicati e fatti rispettare.