Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
L'AVVENTURA DEL VIAGGIO - IL PURGATORIO/14

Talento, ragione, educazione e libertà: ecco l'uomo

Nel canto XVI del Purgatorio ci troviamo proprio a metà dell’intera Commedia (il canto cinquantesimo). Il poeta è giunto nella terza balza, dove espiano il loro vizio gli iracondi, immersi nel fumo. Qui Dante incontra Marco Lombardo, uomo di corte che ben conosce il mondo, vissuto nella seconda metà del secolo XIII.

Cultura 14_09_2014
Dante Alighieri

Nel canto XVI del Purgatorio ci troviamo proprio a metà dell’intera Commedia (il canto cinquantesimo). Il poeta è giunto nella terza balza, dove espiano il loro vizio gli iracondi, immersi nel fumo. La pena del contrappasso è per analogia: come in vita l’iracondia ha impedito di vedere bene la realtà e le persone, allo stesso modo nell’aldilà un fumo spesso impedisce di scorgere bene il cammino. Le anime stanno pregando l’Agnus Dei («Agnus dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis, dona nobis pacem»): Gesù è l’agnello di Dio, segno di mansuetudine e di mitezza, che ha offerto la sua vita in espiazione dei nostri peccati, in antitesi al vizio dell’iracondia.

Tra gli iracondi Dante viator incontra Marco Lombardo, uomo di corte che ben conosce il mondo, vissuto nella seconda metà del secolo XIII. Dopo un breve dialogo tra i due, che richiama tanti altri colloqui già sentiti nel Purgatorio, preso da un dubbio che è di un’attualità sconcertante, Dante chiede a Marco di chi sia la colpa della corruzione contemporanea e della presenza di così tanto male nel mondo: «Lo mondo è ben così tutto diserto/ d’ogne virtute, come tu mi sone,/ e di malizia gravido e coverto;/ ma priego che m’addite la cagione,/ sì ch’i’la veggia e ch’i’ la mostri altrui:/ ché nel cielo uno, e un qua giù la pone».

L’anima purgante risponde che l’uomo sulla Terra è solito attribuire ogni colpa «al cielo», come se tutto accada «per necessità», ovvero in maniera deterministica, come se non possa non accadere e sia, quindi, ineluttabile. Una tale visione evidentemente cancellerebbe ogni tipo di libero arbitrio, perché l’incidenza delle azioni e delle scelte umane sulla vita sarebbe nulla. Di conseguenza, non sarebbe giusto che venissero comminate delle pene (sia nel mondo terreno che in quello ultraterreno) per aver commesso delle azioni malvagie o assegnati premi a chi ha ben meritato quando la responsabilità personale è nulla. Il criterio del merito personale può, infatti, essere applicato solo quando si presuppone una visione antropologica impostata sulla libertà.

A questo punto Marco Lombardo ben evidenzia i fattori che sono in gioco nell’uomo: «Lo cielo i vostri movimenti inizia;/ non dico tutti, ma, posto ch’i’ ’l dica,/ lume v’è dato a bene e a malizia,/ e libero  voler; che, se fatica/ ne le prime battaglie col ciel dura,/ poi vince tutto, se ben si notrica». Ecco qui di seguito una breve parafrasi esplicativa: il cielo dà un primo movimento alle creature attraverso l’inclinazione naturale che assegna a ciascuna di esse (che potremmo chiamare talento); il cielo non dà inizio a tutti i movimenti, ma anche se ammettessimo questo per la fase iniziale, poi l’uomo, dotato di una ragione che sa distinguere il bene dal male e di un libero arbitrio, potrebbe comunque scegliere; il libero arbitrio, infatti, se si impone a fatica all’inizio sull’inclinazione naturale, poi riesce ad avere il sopravvento, quando è sorretto da una buona educazione.

Sono, quindi, quattro i fattori fondamentali dell’umana natura. Il primo è l’inclinazione naturale o talento che ci viene assegnato dalla nascita, non dipende quindi da noi, ma è un «dono»; ce lo ritroviamo addosso, sta a noi, nel tempo, riconoscerlo. Il secondo fattore è la ragione, ovvero l’apertura alla realtà secondo la totalità dei suoi fattori che include, quindi, anche la capacità di valutare in una determinata situazione i differenti elementi in gioco per prendere una decisione che sia buona per la propria vita. Ecco perché è qui chiamata «lume […] a bene e a malizia», luce che rischiara ciò che è bene da ciò che è male. L’educazione deve, poi, «ben nutrire» la ragione e la libertà, deve, cioè, introdurci nella realtà con un’ipotesi esplicativa della stessa che va evidentemente verificata nell’esperienza. Solo un’educazione che ben evidenzi da un lato un buon uso della ragione, dall’altro il dato della realtà, non costruito da noi e che esiste prima di noi, può considerarsi adeguata all’umana natura. Infine, l’uomo è dotato del libero arbitrio, che può, comunque, scegliere il bene o il male, nonostante l’inclinazione naturale, la ragione e l’educazione, anche se naturalmente un’educazione che insegni un uso corretto della ragione aiuta ad un’espressione buona della propria libertà.

È impressionante come in un’estrema sintesi Dante sappia spiegare l’umana natura ed è davvero stupefacente la dignità che il Sommo poeta conferisce all’uomo proprio nel riconoscimento della libertà che gli è propria. È come se lo scrittore ci volesse dire che non possiamo nasconderci dietro le solite scuse («è il mio carattere», «sono fatto così», «se fossi nato in un altro ambiente o in un’altra famiglia»», …), perché la responsabilità delle scelte nell’istante è tutta nostra, abbiamo sempre la possibilità di scegliere per il bene, o di pentirci e di tornare indietro rispetto a scelte che abbiamo scoperto non buone per noi. La persona può mettere in gioco sempre e in ogni istante la propria libertà dinanzi a quanto accade. Nella grande epopea della libertà, che è la Divina commedia, Dante ben evidenzia la sostanziale predominanza di questo fattore nell’umana natura.

Nel canto XVI del Purgatorio, poi, Marco Lombardo spiega che l’uomo persegue la vera libertà quando il libero arbitrio si muove per il bene, aderisce al bene, ovvero torna verso Colui da cui è partito: «Esce di mano a lui che la vagheggia/ prima che sia, a guisa di fanciulla/ che piangendo e ridendo pargoleggia,/ l’anima semplicetta che sa nulla,/ salvo che, mossa da lieto fattore,/ volentier torna a ciò che la trastulla». Ovvero l’anima umana, semplice, quando esce dalle mani del Creatore si comporta come una bimba che ride o piange infantilmente, non sa nulla salvo che torna con gioia verso ciò che le dà letizia: come una bimba che, ignara di tutto, sempre ritorna nelle braccia della madre, così l’anima umana si muove verso il Bello, il Vero, il Bene, in poche parole verso quel Dio che l’ha creata; come un oggetto di ferro che è attirato da una calamita, così il nostro cuore trova una totale corrispondenza nell’amore e nel bene. Ecco perché l’esperienza piena di libertà (ovvero la sensazione di una nostra piena realizzazione) si prova nell’adesione al nostro vero bene.

Perché allora spesso ci distraiamo e confondiamo il nostro bene con piccoli beni? Perché l’anima «di picciol bene in pria sente sapore;/ quivi s’inganna, e dietro ad esso corre,/ se guida o fren non torce suo amore./ Onde convenne legge per fren porre». Mossi dal desiderio del bene, della felicità, non appena abbiamo il sentore di averlo trovato, ci buttiamo a capofitto su di esso e, spesso, ci inganniamo. Di qui la necessità che ci siano dei freni alla nostra condotta, che ci siano delle leggi e soprattutto che si riconosca un’autorità, cioè una presenza autorevole per la nostra vita, qualcuno di cui poter seguire le tracce o le cui parole ci sappiano mettere in discussione: un’autorità liberante, proprio perché ci rimette nelle condizioni di perseguire di nuovo la nostra vera libertà.

Una volta ancora, Dante intende evidenziare la divisione tra potere temporale e potere spirituale, il primo gestito dall’autorità imperiale, il secondo affidato alla Chiesa. La posizione di Dante è chiaramente espressa dalle parole di Marco Lombardo: «Soleva Roma, che 'l buon mondo feo,/ due soli aver, che l'una e l'altra strada/ facean vedere, e del mondo e di Deo./ L'un l'altro ha spento; ed è giunta la spada/ col pasturale, e l'un con l'altro insieme/ per viva forza mal convien che vada;/ però che, giunti, l'un l'altro non teme». Ovvero, Roma aveva due soli, due riferimenti, l’uno mondano e politico, l’altro religioso. Quando i poteri temporale e religioso sono affidati ad una sola figura non procedono bene. Ma stiamo attenti ad interpretare correttamente le parole di Dante. 

Ai nostri giorni Dante criticherebbe certamente con toni aspri la posizione laicista odierna secondo la quale le riflessioni religiose possano essere espresse solo in uno spazio privato, mentre in ambito pubblico non si possa esporre la propria convinzione di fede. Per Dante, infatti, l’uomo è sempre integrale, mai disunito, e porta sempre con sé in ogni ambito il proprio credo, le proprie convinzioni, i propri ideali. Non esiste una settorializzazione degli ambiti, ma l’unità della persona investe ogni aspetto della vita, dalla cultura alla politica alla letteratura.