Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Cristo Re a cura di Ermes Dovico
L'ALTRA CINA

Taiwan riconferma la Tsai, altro voto contro il comunismo cinese

A Taiwan, nella piccola Repubblica di Cina non comunista, ha vinto le elezioni Tsai Ing-wen, riconfermata presidente. Ma la vera notizia è che ha perso Xi Jinping, il presidente della Repubblica Popolare Cinese comunista, che chiaramente non partecipava alla competizione elettorale, ma l'ha condizionata con le sue intimidazioni.

Esteri 13_01_2020
Tsai Ing-wen

A Taiwan, nella piccola Repubblica di Cina non comunista, ha vinto le elezioni presidenziali Tsai Ing-wen, riconfermata presidente, con oltre il 57% dei consensi. Ma la vera notizia è che ha perso Xi Jinping, il presidente della Repubblica Popolare Cinese comunista, che chiaramente non partecipava alla competizione elettorale, né direttamente né con un suo candidato, ma, con le sue dichiarazioni, è stato il vero artefice dello spostamento dell’opinione pubblica di Taiwan verso la riconferma della Tsai.

Il fatto che si tratti di un’elezione tutta giocata sul rapporto con la Cina continentale e “popolare”, lo dimostra la differenza fra le elezioni regionali del novembre 2018 e i risultati eclatanti di queste presidenziali. La prima presidente donna, al vertice del Partito Democratico Popolare, aveva varato una serie di riforme impopolari. Aveva introdotto una riforma sul lavoro, improntata su una maggior flessibilità, che a quanto pare era risultata solo in una maggior confusione fra i piccoli e medi imprenditori. Poi aveva promosso, con maggior successo, una riforma delle pensioni. La sua politica sui temi etici è sempre stata estremamente divisiva: Taiwan è la prima nazione asiatica ad aver istituito, nel maggio del 2019, il matrimonio gay, una misura approvata dalla legislatura in carica, a seguito di una sentenza della Corte Costituzionale, nonostante fosse stata bocciata nel novembre 2018 da un referendum popolare. Ci sono molti elementi per pensare che la Tsai non fosse molto popolare. Alla fine del 2018, dopo la batosta incassata nelle elezioni amministrative dal suo partito, aveva anche ventilato le sue dimissioni. Per la campagna del 2019, di fronte a un candidato forte del Kuomintang, il partito nazionalista, era considerata non competitiva e si pensava che avrebbe perso in caso di elezioni primarie nel partito della sinistra taiwanese.

A determinare il cambio di rotta dell'opinione pubblica è stato, appunto, Xi Jinping. La prima cosa che ha dichiarato nel 2019 è stato il bellicoso proclama di riunificazione di Taiwan con la Cina. Con le buone o con le cattive: nello stesso discorso, Xi non ha escluso l’uso della forza. Pechino considera ancora l’isola come provincia ribelle, come se la guerra civile (1945-49) non fosse mai terminata, dato che Taiwan è nata dalla fuga delle ultime truppe anticomuniste fedeli al generale Chang Kai-shek, leader del regime nazionalista del Kuomintang. Nel corso di tutto il 2019, Xi Jinping ha dato ai cinesi di Taiwan altri due motivi per preoccuparsi. Il primo è stato il confronto commerciale con gli Stati Uniti che ha causato un notevole ritorno di capitali dalla Cina continentale a Taiwan. Il secondo è ancora sotto gli occhi di tutti: Hong Kong. Anche dopo sei mesi di proteste e sommosse, la Cina mantiene e consolida la sua presa sulla città-Stato, dettando le sue regole, imponendo il suo volere sul governo locale, negandone l’autonomia di fatto e di diritto. I rapporti fra Pechino e Hong Kong dovrebbero essere regolati in base al principio “un Paese, due sistemi”, che è lo stesso previsto per l’eventuale riunificazione di Taiwan alla Cina. A Hong Kong si è potuto vedere che non funziona, che è solo un paravento della lenta annessione di un territorio alla Cina comunista.

Tutta questa escalation di paura è stata sfruttata dalla Tsai, la cui linea di indipendenza (o quanto meno: piena autonomia) dalla Cina continentale, è sempre stata chiara, sin dalla sua prima campagna nel 2016. La posizione di Han Kuo-yu, leader del Kuomintang, è invece diventata insostenibile. Han, infatti, mirava ad un riavvicinamento pacifico alla Cina, sulla base del “1992 Consensus”: il riconoscimento formale che esiste un’unica Cina.

In una situazione come quella attuale, una riunificazione pacifica con la Cina continentale è apparsa come una resa. Xi ha ulteriormente contribuito a dare corpo a questa paura, inducendo altri governi di piccole nazioni, come le Salomone (isole nel Pacifico meridionale), a disconoscere Taiwan e aprire rapporti diplomatici con Pechino, per lanciare un messaggio intimidatorio alla Tsai e alle sue aspirazioni indipendentiste. Infine, ma non da ultimo, la presidente uscente ha anche dato voce e rifugio ai dissidenti di Hong Kong. La sua terra è direttamente coinvolta nella questione, visto che l’emendamento alla legge sull’estradizione che la governatrice Carrie Lam avrebbe voluto introdurre a Hong Kong (e che avrebbe permesso di estradare cittadini anche in Cina) nasceva da un delitto avvenuto sul territorio di Taiwan. La Tsai ha ospitato tutte le voci del dissenso e ha offerto un rifugio sicuro a chiunque dovesse fuggire dalla repressione di Hong Kong. Alla fine la sua politica è stata premiante: è risultata essere il giusto contraltare alle intimidazioni di Xi. Benché senza dubbio cinesi, gli abitanti di Taiwan hanno voluto essere protetti dalle mire di Pechino. E hanno dato un’ulteriore dimostrazione di una legge infallibile della politica: ovunque si possa votare liberamente, la maggioranza vota contro il comunismo.