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L'INTERVISTA ALLA GIURISTA

«Super green pass, chi non ce l'ha può pure morire»

«In modo surrettizio è stata dichiarata la legittimità di lasciar morire le persone, che non possono più veder riconosciuto il principio primario del diritto al lavoro, su cui si fonda la nostra Repubblica; ma se si preclude la possibilità di lavorare a quasi un terzo degli italiani, significa impedire loro di procurarsi il necessario per portare a casa il pane. E se non hai il pane, muori». La Bussola intervista l'avvocato Parisotto sull'introduzione del super green pass per i lavoratori: «Non esiste nessuna norma, men che meno di diritto naturale, che venga a legittimare il sacrificio di un soggetto, fosse anche uno solo, a favore di altri».

Attualità 22_09_2021

Ormai conviene diventare dei serial killer. Si viene arrestati, d’accordo, ma almeno si hanno vitto e alloggio assicurati. Non così a chi osa presentarsi al lavoro senza il lasciapassare di regime: multato e sospeso, senza più la possibilità di guadagnarsi di che vivere. Dell’ultima trovata del Governo, anomalia tutta italiana che secondo un Ministro che non spicca per statura ci avrebbe portato all’avanguardia nel mondo, ne abbiamo parlato con l’Avvocato penalista del Foro di Milano, Antonia Parisotto, per anni membro della segreteria di O.D.D.I. (Organismo di difesa dei Diritti delle Donne Italiane - e straniere), occupandosi della tutela delle donne musulmane in Italia. Di recente ha aderito a La Genesi, associazione a salvaguardia dei diritti e delle libertà individuali e collettive.

Avvocato Parisotto, la prima domanda è scontata: come valuta il Decreto Legge che impone a tutti i lavoratori l’obbligo del lasciapassare “verde”?
Sarò un po’ provocatoria: siamo di fronte ad un Decreto Legge che ha legittimato la pena di morte.

La pena di morte?
Sì. In modo surrettizio è stata dichiarata la legittimità di lasciar morire le persone, che non possono più veder riconosciuto il principio primario del diritto al lavoro, su cui si fonda la nostra Repubblica; ma se si preclude la possibilità di lavorare, si badi bene, non ad alcune persone ma addirittura a quasi un terzo degli italiani, significa impedire loro di procurarsi il necessario per portare a casa il pane. E se non hai il pane, muori.

E il Garante della Costituzione?
Avalla.

C’è un altro risvolto di questa “pena di morte”. Proprio pochi giorni fa è uscito l’ottavo Rapporto sulla Sorveglianza dei vaccini COVID-19. Nonostante il problematico algoritmo dell’OMS (vedi qui), si riconoscono comunque 14 decessi correlati al vaccino.
Questo è un punto cruciale. Non esiste nessuna norma, men che meno di diritto naturale, che venga a legittimare il sacrificio di un soggetto, fosse anche uno solo, a favore di altri. Diversamente, si potrebbe arrivare a sostenere la legittimità di sacrificare una persona per espiantargli gli organi, perché con quegli organi potrei salvare la vita di altre persone. In questo modo si contraddice il principio di poter decidere se assumere o meno determinati farmaci, rinnegando così apertamente l’art. 32 della Costituzione italiana, perché di fatto si dichiara che il sacrificio di una persona è legittimato dal fatto di garantire il bene della comunità.

La sentenza n. 5/2018 della Corte Costituzionale, firmata tra l’altro da Marta Cartabia, stabiliva tre criteri perché l’imposizione di un trattamento sanitario potesse risultare compatibile con l’art. 32 della Costituzione da lei citato.
Il discorso è interessante perché esiste una recente sentenza del TAR del Friuli Venezia Giulia, che rapporta quella sentenza a quanto sta accadendo oggi. All’epoca, però, non si erano registrati ufficialmente decessi correlati ai vaccini pediatrici. Oggi, invece, è un dato certo che almeno 14 persone sono decedute in conseguenza dell’assunzione di queste sostanze. Ma basterebbe anche una sola persona morta a rendere illegittima l’obbligatorietà, conclamata o surrettizia, di farsi somministrare questa sostanza. Che il sacrificio del singolo per il beneficio di molti non sia possibile, lo ricorda proprio la sentenza 5/2018, che tra le condizioni per una legittima obbligatorietà di un trattamento sanitario includeva «la previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario e, pertanto, tollerabili». Questo è un notevole punto di forza, in questa battaglia.

Mi torna in mente il botta e risposta dell’eurodeputata Francesca Donato e l’attuale Sottosegretario alla Salute, Pierpaolo Sileri. La Donato faceva notare le oltre 80 mila reazioni avverse (dati AIFA aggiornati al 26 agosto: 91.360 reazioni avverse, di cui 13,8% gravi) e Sileri si rifiutava di rispondere, dato il numero irrisorio, secondo lui, a fronte dell’alto numero di dosi somministrate. E’ esattamente il principio che la salute (presunta) di molti valga il sacrificio di pochi.
E’ così. Ma dicano in base a quale articolo della Costituzione, per non parlare dei principi etici, sarebbe legittimo un ragionamento del genere. Poi non si capisce perché ad immolarsi per la causa debbano essere sempre gli altri...

Un’estensione del green-pass all’italiana pare sia un unicum, almeno in Europa.
Notizia di poco fa, in Francia si sta andando nella direzione di un ridimensionamento delle misure prese dal governo di Macron, misure che peraltro non colpivano così tanto i lavoratori e le scuole. Anche in Slovenia, dove non si poteva nemmeno andare a fare il carburante senza il green-pass, adesso si può circolare liberamente. In Spagna esistono dei Tribunali che hanno ancora il coraggio e l’onestà intellettuale di applicare la propria Costituzione; i ricorsi presentati hanno trovato giustamente accoglimento da parte di chi è chiamato decidere. La Spagna ha respinto il green-pass a colpi di sentenze.

Lei come valuta i ricorsi al Tribunale europeo, sulla base del fatto che il recente Decreto Legge deriva dal Regolamento UE 953/2021?
In questo regolamento, c’è un ormai famoso considerando, il n. 36, che impedisce qualsivoglia discriminazione verso chi non possa o non voglia assumere queste sostanze. Questo Regolamento è diventato definitivo e, nell’ultimo articolo, il n. 17, si pone come obbligatorio per tutti gli stati UE «in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli stati membri». Quindi anche il considerando n. 36 è vincolante. Si tratta di una norma obbligatoria, a cui il Governo italiano ha aderito. Pertanto ogni Decreto Legge deve sottostare a questo Regolamento.

Tornando in Italia, non sarebbe possibile muovere un’eccezione di costituzionalità?
Non lo può fare un cittadino e nemmeno un avvocato. E possibile solo se, in un caso concreto, il Giudice chiamato a decidere promuove un’eccezione di costituzionalità. Oltre ad un Magistrato, lo può fare un Senatore. Ci stiamo muovendo su quest’ultimo fronte. Dico solo che c’è una strada aperta. Io e tanti miei colleghi stiamo lavorando a testa bassa, per ore e ore, continuando ad avere fiducia che, prima o poi, chi di dovere riconoscerà l’illegittimità di queste norme. In parallelo è però necessario che nel popolo italiano cresca la consapevolezza del momento che stiamo vivendo e che si prendano posizioni ferme.

Fino ad ora, la tecnica di colpire una categoria lavorativa alla volta, ha fatto sì che ci si potesse sedere di fronte al “non tocca a me”. Adesso che colpisce tutti, forse ci sarà una reazione più forte.
Lo spero: è di fondamentale importanza. Dobbiamo essere fieramente decisi a combattere per questa causa, di fronte a quella che si configura sempre di più come un’estorsione da parte dello Stato.

Un’ultima domanda: il Tribunale di Milano ha emesso una sentenza interessante, riguardo alla sospensione dal lavoro di una OSS.
Si tratta certamente di un primo importante passo, sebbene faccia riferimento ad una situazione precedente la normativa sull’obbligo di sospensione dei sanitari. Si tratta di una OSS che era stata sospesa dal lavoro, senza retribuzione, dalla Cooperativa per cui lavorava. Il Tribunale riconosce il diritto della lavoratrice alla normale retribuzione, pur rimanendo sospesa perché la Cooperativa, datrice di lavoro ha proceduto immediatamente alla sospensione della dipendente, senza valutare la possibilità di un suo diverso collocamento nell’ambito dell’azienda. Il Tribunale quindi condanna la Cooperativa a riconoscerle la retribuzione ex tunc.