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ESERCITO DI POVERI?

Sull'immigrazione la Cei ascolti i vescovi africani

Un “esercito di poveri, vittime di guerre e fame”. Così la Presidenza della Conferenza episcopale italiana definisce gli emigranti. Un'immagine stereotipata e ben lontana dalla realtà. Le cifre dimostrano che questo "esercito" è una piccola minoranza in un mare di clandestini

Esteri 24_07_2018
Azione di polizia in una tendopoli di immigrati

Un “esercito di poveri, vittime di guerre e fame”. Così la Presidenza della Conferenza episcopale italiana definisce gli emigranti illegali in una nota pubblicata il 19 luglio scorso in cui afferma il rifiuto di cedere a inquietudini e paure che “alimentano un clima di diffidenza e disprezzo, di rabbia e rifiuto” ed esprime gratitudine per chi dimostra invece “compassione, lungimiranza e coraggio” e contribuisce a costruire “una cultura inclusiva, capace di proteggere, promuovere e integrare”. 

Siccome gli emigranti illegali sono per lo più giovani maschi originari dell’Africa sub-sahariana, la Cei dovrebbe decidersi a parlarne con i vescovi africani. Scoprirebbe che loro sono molto preoccupati per i giovani che vedono partire. Non solo per il costo e le incognite del viaggio, ma perché non ne vale la pena, perché quell’Eldorado, a cui aspirano e che si illudono di raggiungere, in Europa non esiste. Direbbero che sono preoccupati perché quei ragazzi vanno lontano migliaia di chilometri dalle loro famiglie, e a casa non erano poveri, ma lo diventano una volta sbarcati perché da quel momento devono tutto – abiti, cibo, alloggio, qualsiasi cosa – a degli estranei di cui non capiscono neanche la lingua, dipendenti dall’apparato assistenziale creato per assisterli. E sanno, i vescovi africani, che quasi tutti, anche se subito non se ne rendono conto, sono senza prospettive, senza futuro perché l’Italia è si “capace di proteggere”, cioè può accoglierli e con non poco sacrificio assisterli, per mesi e anche per qualche anno, ma non è in grado di “promuovere e integrare”, cioè procurare loro un lavoro regolare e adeguatamente retribuito che li renda indipendenti, prima condizione del rispetto di sé e di una integrazione economica e quindi anche sociale.

Peraltro quell’ “esercito di poveri, vittime di guerra e fame” di cui parla la Cei, in concreto si riduce a poche migliaia di persone. Tanti sono gli emigranti illegali che hanno ottenuto lo status giuridico di rifugiato negli ultimi quattro anni perché davvero minacciati in patria dalla guerra o per qualche motivo perseguitati. Nei primi cinque mesi del 2018 sono state accettate solo 2.644 richieste di asilo su 40.123 esaminate, il 6,5%. Ne sono state respinte 24.524, più del 60%.

Ad altri 12.937 richiedenti asilo lo status di rifugiato è stato negato, però hanno ottenuto di rimanere in Italia: 1.631 godendo di protezione sussidiaria e 11.306 di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Si tratta di due forme di protezione internazionale previste dal nostro paese: di cinque anni rinnovabili la prima, al massimo di due anni rinnovabili la seconda. A chi ne usufruisce si applicano le stesse regole previste dalla Convenzione di Ginevra per i rifugiati: non vengono intraprese nei suoi confronti sanzioni penali a motivo del suo ingresso o permanenza illegali ed è vietato rinviarlo in territori in cui la sua vita e la sua libertà sarebbero minacciate. Danno entrambe accesso al servizio sanitario e ad altre prestazioni assistenziali, allo studio e ad attività lavorative, nel caso della protezione sussidiaria prevedono anche il ricongiungimento famigliare.

12.937 persone, il 32% dei richiedenti: sono loro in realtà l’“esercito” – molti più di 100.000 solo considerando gli anni dal 2015 a oggi – per cui la Cei si addolora chiedendo per loro compassione e che vengano accolti combattendo “diffidenza e disprezzo, rabbia e rifiuto”. Ma chi sono? Siccome non fuggono da guerre e persecuzioni, e certo non da condizioni di povertà estrema, che cosa raccontano alle commissioni territoriali incaricate di valutare le richieste di asilo? Molti dicono di essere partiti a causa di liti per motivi economici, degenerate o che minacciavano di farlo, di violenze subite o temute, spesso in ambito famigliare. Esther, ad esempio, una donna nigeriana, ha raccontato di essere scappata perché suo marito la voleva uccidere, Elle, nigeriana anche lei, a causa di un prestito non restituito per cui suo nonno aveva ucciso suo padre, Dooshena perché maltrattata da uno zio, Joy perché suo padre voleva che lei, cristiana, ritornasse all’animismo. Un uomo arrivato dal Gambia ha detto di essere stato minacciato di morte dallo zio per avergli “perso” un camion, un altro di aver incendiato per errore un allevamento di polli, provocando la morte di alcune persone, un altro ancora di essere partito perché il padre diventato cieco non era più in grado di pagargli le tasse scolastiche.

Poi ci sono gli orfani, maggiorenni non bambini: uno, ad esempio, in fuga per sottrarsi a uno zio potente che, per impadronirsi del patrimonio lasciatogli dal padre, lo aveva accusato di reati non commessi, un altro perché rimasto senza nessuno a occuparsi di lui dopo la morte dei genitori in un incidente d’auto, un altro per sottrarsi ai creditori che esigevano da lui il pagamento di un debito contratto dal padre commerciante, deceduto mentre trasportava un carico di frutta.

“Avvertiamo in maniera inequivocabile – conclude la nota della Cei – che la via per salvare la nostra stessa umanità dalla volgarità e dall’imbarbarimento passa dall’impegno a custodire la vita. Ogni vita. A partire da quella più esposta, umiliata e calpestata”. Anche in Italia capita di restare orfani e trovarsi in difficoltà. Ivan Vedovato, 24 anni, si è suicidato il 15 luglio, disperato di non riuscire a rimettere in sesto l’attività ereditata in condizioni critiche dal padre deceduto a gennaio. Si è tolto la vita nel capannone dell’azienda il giorno prima dell’esecuzione di sfratto a causa dei problemi finanziari della ditta e dopo essersi organizzato con il fratello minore Andrea per sgomberare i locali.