Sull'attacco del 7 ottobre si fa strada la pista del "fuoco amico"
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La fuga di notizie sull'inchiesta del 7 ottobre porta ad una sottovalutazione dei servizi israeliani delle avvisaglie e ad un attacco di "fuoco amico" che avrebbe provocato il maggior numero di vittime.
A Nahal Oz, un kibbutz nel sud di Israele, poco più di quattrocento abitanti, nelle vicinanze al confine con la Striscia di Gaza, i militari israeliani di guardia avrebbero notato i miliziani di Hamas partecipare ad un'esercitazione lungo la barriera di separazione tra Israele e la Striscia. Un addestramento che prevedeva il lancio simultaneo di razzi e l'assalto ai carri armati israeliani. I soldati fecero un rapporto ai superiori, che però, sottovalutarono la segnalazione, giudicandola come una normale attività di addestramento del gruppo terroristico. Pochi giorni dopo, però, quella semplice "esercitazione" si rivelò un vero e proprio attacco, ben pianificato, da cui scaturì il più sanguinoso scontro, nell'ultimo decennio, tra Israele e Hamas.
Dopo oltre otto mesi da quel tragico 7 ottobre del 2023, stanno trapelando delle notizie che confermano che sia l'esercito, che i vertici del governo fossero a conoscenza che qualcosa di inusuale stesse per accadere nella Striscia di Gaza. I responsabili dello spionaggio israeliano, infatti, ricevettero dei messaggi in codice, nei quali si metteva in evidenza che i miliziani di Hamas si stavano esercitando in possibili incursioni su avamposti militari e un’azione ad effetto che prevedeva di issare una loro bandiera su una sinagoga. Descrizioni molto dettagliate, che i vertici dei servizi segreti israeliani, però, sottovalutarono. Se presi nella dovuta considerazione queste segnalazioni avrebbero forse evitato il massacro di 1200 israeliani e il rapimento di 250?
Sempre da notizie che iniziano a trapelare, sembrerebbe che sia stato il fuoco amico a provocare un gran numero di vittime in quel drammatico 7 ottobre. Di numeri esatti non si parla, si fa riferimento a un «grande numero» e di «incidenti multipli delle nostre forze che hanno sparato alle nostre forze», come le granate lanciate contro le case del kibbutz Beeri perché, dice l’inchiesta, il generale Hiram ordinò di «entrare dentro, anche a costo di vittime civili».
Di tutti i messaggi inviati, alcune e-mail decriptate sono state diffuse in questi giorni. Si viene a conoscenza che un responsabile dell'Unità 8200, la struttura dello spionaggio incaricata a decodificare i segnali elettromagnetici e specializzata nella guerra cibernetica, giudicò quei segnali come «uno scenario immaginario». Il documento in codice era stato chiamato "Muro di Gerico", descriveva sin nei minimi particolari, tutto ciò che sarebbe accaduto nella devastante invasione poi attuata. Il portavoce dell'esercito ha dichiarato che poiché in questi giorni l’Idf è assolutamente concentrato nella lotta contro l’organizzazione terroristica di Hamas, solo al termine delle ostilità, verrà condotta un’indagine approfondita, incisiva e senza compromessi, con la pubblicazione dei risultati.
Se servizi segreti e governo fossero intervenuti, probabilmente avrebbero scongiurato anche la morte di 37.431 abitanti di Gaza, gli 85.653 feriti e i 314 soldati israeliani caduti nell'offensiva di terra contro Hamas e nelle operazioni al confine di Gaza.
Nel frattempo, la situazione di questa assurda guerra si complica giorno dopo giorno.
I carri armati israeliani spingendosi sempre più in profondità nella parte occidentale di Rafah, nel sud di Gaza, sparano contro le tende degli sfollati seminando morte e distruzione. Ma si vocifera anche che solamente cinquanta ostaggi, dei 116 in mano ad Hamas, dopo 259 giorni dal sequestro, siano ancora vivi. È stato lo stesso primo ministro Benjamin Netanyahu, accompagnato dalla moglie Sara, ad annunciarlo indirettamente ai familiari poco dopo che era stata notificata la morte di altri prigionieri, i cui nomi non sono stati resi noti. «Ci impegniamo a riportare a casa tutti gli ostaggi. Vivi o morti. Non lasceremo nessuno nella Striscia di Gaza». Purtroppo, le trattative per il raggiungimento di un accordo per la liberazione degli ostaggi, compresa la restituzione dei corpi delle persone uccise durante la prigionia o durante l’assalto di Hamas, non hanno fatto progressi nelle ultime settimane; da una parte, il gruppo terroristico che insiste per una sospensione permanente dei combattimenti, dall’altra, Netanyahu che respinge la proposta.
In Israele, nel frattempo, proseguono le proteste contro il governo. Migliaia di persone hanno manifestato contro il primo ministro, bloccando una delle principali autostrade del paese, la Route 6, con copertoni dati alle fiamme. Manifestazioni che durano ormai da settimane dove vengono richieste, ad alta voce, nuove elezioni, la rimozione di Netanyahu e un accordo di scambio con Hamas, per riportare a casa gli ostaggi.
Aumenta anche la tensione tra Joe Biden e Benjamin Netanyahu. I rapporti non sono più idilliaci. Martedì scorso, in un video in lingua inglese, Netanyahu ha riferito di aver detto ad Antony Blinken, segretario di Stato americano, che era «inconcepibile e inaccettabile» che Washington stesse «trattenendo armi e munizioni» destinate a Israele. La risposta della Casa Bianca non si è fatta attendere. «È stato a dir poco sconcertante, certamente deludente, considerando che nessun altro paese sta facendo di più per aiutare Israele a difendersi dalla minaccia di Hamas - ha detto lo scorso giovedì ai giornalisti il portavoce della Casa Bianca, John Kirby -. L'idea che in qualche modo avessimo smesso di aiutare Israele nelle sue esigenze di autodifesa non è assolutamente corretta», definendo anche l'intervento di Netanyahu «irritante e deludente».
E il confine con il Libano è sempre più caldo. Ieri mattina, le forze israeliane avrebbero condotto attacchi nell'area della città di Al Wazzani, situata nel sud del Paese dei cedri. È stata anche attaccata una base di Hezbollah nelle aree di Hula e Talloussa. Il capo del gruppo terroristico libanese, Hassan Nasrallah, ha lanciato un messaggio di minacce al governo israeliano dichiarando che nessun luogo in Israele sarebbe sicuro se scoppiasse una vera e propria guerra tra i due nemici, minacciando, allo stesso tempo, anche Cipro e altre zone del Mediterraneo. «Cipro non è coinvolta e non sarà trascinata in alcuna guerra o conflitto - ha detto il portavoce del governo cipriota, Konstantinos Letymbiotis - pertanto, le dichiarazioni del leader di Hezbollah non corrispondono alla realtà». Nicosia ha reagito con sorpresa e disappunto alle minacce di mercoledì di Hasan Nasrallah, secondo cui Cipro potrebbe diventare un obiettivo, se permettesse a Israele di utilizzare il suo territorio in un possibile conflitto tra le due parti. I funzionari ciprioti hanno insistito sul fatto che la repubblica insulare rimane un “pilastro di pace” in una regione instabile.
Intanto l'Armenia rende noto di aver riconosciuto lo Stato della Palestina.