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AFRICA

Sudan, si combatte da tre giorni. Appello alla tregua

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Tentato golpe delle Forze di Supporto Rapido (Rsf) contro l'esercito governativo. Lo scontro è sul processo di democratizzazione e sull'integrazione delle Rsf nell'esercito, oltre che sulla richiesta di giustizia per le vittime del precedente golpe. Tensione in tutta la regione.

Esteri 17_04_2023
Si combatte a Khartum

Si combatte in Sudan ormai da tre giorni. Lo scontro è tra esercito governativo e Forze di supporto rapido (Rsf), l’organismo paramilitare guidato dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemedti, che sta tentando di prendere il controllo del paese. Se ci riuscisse sarebbe il terzo colpo di stato militare in quattro anni, dopo quello che nell’aprile del 2019 ha destituito Omar Hassan al Bashir, mettendo fine a un regime autoritario durato 30 anni e portando alla guida del paese un Consiglio composto da militari e civili; e quello dell’ottobre 2021, con cui ha preso il potere l’attuale giunta militare presieduta dal capo delle forze armate, generale Abdel Fattah al-Burhan, che di fatto è il capo dello stato, con Hemmedti suo vice.

La rivalità tra i due leader militari era stata finora contenuta. A farla esplodere, per la prima volta in scontro armato, sono state divergenze sempre più profonde. La prima e prioritaria è quella che riguarda i termini e i tempi della transizione democratica promessa dai militari, per dotare il paese di istituzioni di governo che di fatto non ha mai realmente avuto perché dal 1956, anno dell’indipendenza dalla Gran Bretagna, il Sudan ha conosciuto solo regimi sostanzialmente autoritari.

Più grave ancora è la questione dell’integrazione dei 100mila militari delle Rsf nell’esercito e di chi sarà il capo delle forze armate unificate. Hemmedti vorrebbe rimandarla di dieci anni, mentre l’esercito governativo chiede che venga realizzata entro due anni. Al centro delle discussioni c’è anche, e non è di poca rilevanza, la richiesta popolare rivolta alla giunta militare di cedere le molte, redditizie proprietà dell’esercito in vari settori dell’economia, da quello agricolo a quello commerciale, che costituiscono una fonte fondamentale di potere.
Sulla bilancia ci sono inoltre le richieste di giustizia per le numerose vittime civili durante le proteste del 2019, quando la popolazione della capitale Khartoum e delle principali città ha dimostrato chiedendo democrazia e l’esercito è intervenuto brutalmente sparando ad altezza d’uomo, e le oltre 125 persone uccise dalle forze di polizia dopo il golpe, anche nei giorni scorsi, perché una parte della popolazione non ha mai smesso di manifestare contro la giunta militare.

Adesso a quelle vittime per cui si chiede giustizia se ne stanno aggiungendo tante altre. Sono almeno 59 i morti tra i civili, secondo l’ultimo aggiornamento di domenica sera 16 aprile, tra cui si contano tre dipendenti del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, uccisi nel nord del paese. L’agenzia Onu si è vista costretta a sospendere tutte le operazioni nelle città e nelle aree in cui si combatte. Notizie contraddittorie sulla situazione sul campo si sono susseguite per tutta la giornata di domenica. Verso sera è sembrato che le truppe governative stessero prendendo il sopravvento. Si ritiene che, anche grazie a una serie di attacchi aerei alle caserme e alle basi Rsf, siano riuscite a riprendere il controllo di gran parte del palazzo presidenziale.

Con un comunicato l’esercito governativo la sera del 16 aprile ha detto che “l’ora della vittoria è vicina” e in precedenza aveva dichiarato che non ci sarebbero stati negoziati o dialogo se non dopo la dissoluzione delle Rsf. Tuttavia i combattenti Rsf continuano a occupare aree dell’aeroporto internazionale di Khartoum e l’agenzia di stampa Reuters dai suoi corrispondenti ha saputo che a migliaia, pesantemente armati e del tutto privi di controllo, sono sparsi nella periferia della capitale e in altre città.

Non soltanto sono dotati di armi pesanti. I paramilitari Rsf sono anche bene addestrati. A istruirli ci hanno pensato i mercenari russi del gruppo Wagner, presenti in Sudan almeno dal 2017. In quanto a ferocia non hanno bisogno di istruttori. A renderli famosi nel mondo sono stati i massacri che hanno compiuto nel Darfur infierendo sulle comunità agricole delle etnie africane, armati e scatenati nel 2003 da al Bashir, deciso a completare il suo progetto di islamizzazione e arabizzazione del Sudan. Per le stragi compiute tra il 2003 e il 2008 di cui è ritenuto il mandante, al Bashir è stato denunciato alla Corte penale internazionale che nel 2009 ha emesso contro di lui un mandato internazionale di arresto. È accusato di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. All’epoca, i combattenti delle Forze di supporto rapido erano conosciuti con un altro nome che incuteva terrore al solo sentirlo. Si chiamavano Janjaweed, i diavoli a cavallo.

Stati Uniti, China, Russia, Egitto, Arabia Saudita, il Consiglio di sicurezza dell’Onu, l’Unione Europea e l’Unione Africana nel corso della giornata hanno rivolto appelli a al-Burhan e a Helmedti. Chiedono una rapida sospensione dei combattimenti che minacciano la stabilità di un’area geopolitica, quella dell’Africa orientale, già caratterizzata da situazioni critiche: l’Etiopia, da poco uscita da un conflitto durato due anni, originato dalla ribellione del Tigré e costato centinaia di migliaia di morti; la Somalia, in guerra dal 1987, affondata da allora nel degrado prodotto da tribalismo, corruzione e integralismo islamico; il Sudan del Sud, indipendente dal 2011, nella morsa della guerra due anni dopo, scatenata dalle due etnie maggiori, i Dinka e i Nuer, e ancora irrisolta; lo stesso Kenya, il paese più stabile, tuttavia appena uscito da una drammatica prova di forza tra il presidente William Ruto e il leader dell’opposizione Raila Odinga.
A tutto ciò si aggiungono la presenza di milioni di rifugiati e sfollati e una protratta siccità che ha colpito quasi tutta la regione e rischia di provocare una carestia di vaste proporzioni. Una notizia dell’ultima ora riguarda l’offerta di Egitto e Sudan del Sud di farsi mediatori. Ancora non ha ricevuto risposta.