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CONTINENTE NERO

Sudan, fuga da Khartoum. Evacuati tutti gli stranieri

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In Sudan prosegue da nove giorni la guerra civile scatenata dai paramilitari Rsf del generale Hemedti contro la giunta militare del generale al-Burhan. Saltata anche la tregua di Eid-al-Fitr, i Paesi che hanno ambasciate a Khartoum, Italia inclusa, hanno deciso di evacuare tutti i connazionali. 

Esteri 24_04_2023
Combattimenti in corso a Khartoum

Evacuare tutti i connazionali, inclusi i diplomatici, chiudere l’ambasciata e le sedi consolari sono gli atti estremi che un governo si vede costretto a intraprendere quando in un paese straniero vengono del tutto meno le condizioni di sicurezza a causa di un conflitto in corso, quando neanche le sedi diplomatiche vengono più rispettate. È l’indicatore di una situazione ormai troppo irrimediabilmente compromessa e troppo pericolosa per poter prendere ancora tempo e del fatto che nel breve periodo si ritiene non ci sia la volontà, da parte dei contendenti, e forse neanche la facoltà di sospendere i combattimenti per discutere l’eventualità di una tregua e di un cessate il fuoco.

È quello che sta succedendo in Sudan dove, da nove giorni, nella capitale Khartoum e nella regione occidentale del Darfur sono in corso furiosi combattimenti tra i paramilitari delle Rsf (Forze di supporto rapido) guidati dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemedti, e i soldati governativi del generale Abdel Fattah al-Burhan, capo delle forze armate e della giunta militare che dal 2021 ha preso il potere con un colpo di stato destituendo il Consiglio sovrano, l’organismo composto da civili e militari che a sua volta era alla guida del paese in seguito a un golpe, quello che nel 2019 ha messo fine al regime trentennale di Omar Hassan al Bashir.

I combattenti, specialmente i paramilitari di Hemedti, non risparmiano i civili. Niente e nessuno sembra essere al sicuro da saccheggi e violenze. Sono stati denunciati tentativi di attaccare e fare irruzione nelle ambasciate di alcuni paesi fin dall’inizio degli scontri. Benché il Sudan sia un paese abitato per il 97% da musulmani di origine araba e africana, abbia adottato per lunghi periodi come legge dello stato la shari’a, la legge islamica, e sia profondamente influenzato dell’integralismo islamico, addirittura non è stata rispettata la tregua di 72 ore per celebrare Eid-al-Fitr, la seconda maggiore festa islamica che segna la fine del mese di Ramadan e che quest’anno cadeva il 21 aprile. Insolitamente uniti e concordi, l’hanno invano sollecitata paesi occidentali e islamici, l’Onu, l’Unione Europea, l’Unione Africana, la Lega Araba per consentire almeno di seppellire i morti, rifornire i pochi ospedali ancora aperti a Khartoum, ormai sprovvisti di medicinali, scorte di sangue e dispositivi chirurgici, e distribuire aiuti alimentari alla popolazione.

Così nel pomeriggio di domenica 22 aprile, uno dopo l’altro, i ministeri degli esteri di gran parte dei paesi che hanno sedi diplomatiche a Khartoum hanno ordinato l’avvio di piani di evacuazione del personale diplomatico e di tutti i connazionali residenti nella capitale e altrove. Migliaia di persone si sono preparate a lasciare il paese a bordo di mezzi aerei militari. Alle persone lontane dalla capitale ogni ambasciata ha chiesto di recarsi nei punti di raccolta previsti in caso di emergenza, per essere prelevati, e se necessario di mettersi in contatto con il personale diplomatico per indicare la loro posizione. A tutti è stato raccomandato, mentre si lavorava febbrilmente per garantire in sicurezza gli spostamenti, di restare nel frattempo in casa o comunque in un posto sicuro, di chiudere porte e finestre, di tenere in carica i cellulari.

Per quel che riguarda i cittadini italiani, nella sera del 22 aprile la Farnesina ha annunciato che si stava predisponendo un piano di evacuazione, con un ponte aereo da Khartoum a Gibuti, il piccolo stato all’estremità meridionale del mar Rosso, e da lì a Roma. La mattina del giorno successivo il ministro degli esteri Antonio Tajani ha assicurato: “i nostri connazionali sono stati tutti contattati, anche durante la nottata, dall’unità di crisi del ministero. Sono stati chiamati uno per uno: stanno tutti bene e raggiungeranno la nostra ambasciata. Di più non posso dire per motivi di sicurezza”. Poco dopo il sottosegretario agli esteri Maria Tripodi ha aggiunto che l’ambasciata era ancora operativa per fornire l’assistenza necessaria e il ministro della difesa Guido Crosetto ha quindi annunciato che le operazioni di evacuazione erano iniziate, coordinate dal comando operativo di vertice interforze: “alle 13.55 ora italiana – ha spiegato – da Gibuti sono decollati due C-130 dell’aeronautica militare alla volta di Khartoum, con a bordo personale delle forze speciali dell’esercito e dei carabinieri. La sicurezza degli aeroporti è assicurata dai fucilieri dell’aria dell’aeronautica militare”.

Tuttavia non mancano le difficoltà e i rischi. Il 22 aprile Al-Burhan ha dichiarato che era pronto a far scortare gli stranieri fino all’aeroporto internazionale di Khartoum e Hemedti si era impegnato a sospendere le azioni in prossimità dello scalo durante le operazioni di decollo. Ma non tutto è andato liscio. Il convoglio francese, ad esempio, che trasportava anche cittadini di altri paesi europei, è stato attaccato ed è stato costretto a rientrare nell’ambasciata. Anche la Francia intende trasportare a Gibuti i suoi connazionali. La Giordania e l’Arabia Saudita invece stanno facendo confluire i loro cittadini a Port Sudan. Gli Stati Uniti già nel pomeriggio del 22 aprile hanno iniziato le operazioni di rimpatrio e il 23 di prima mattina tre elicotteri Chinook hanno prelevato  le ultime 100 persone dall’ambasciata che adesso è chiusa. Più di 100 militari americani hanno raggiunto il Sudan in poche ore partendo da Gibuti e passando per l’Etiopia per assistere i loro connazionali. Tra gli altri paesi che stanno radunando i connazionali per cercare di portarli in salvo: Turchia, Egitto, Canada, Olanda, Germania, Belgio, Russia, Giappone, Regno Unito, Kuwait, Qatar, Corea del Sud.

Molti italiani sono in Sudan impiegati in imprese italiane. “Il timore è che le due parti in conflitto per il controllo del potere in Sudan non abbiano intenzione di sedersi a un tavolo – spiega il ministro Tajani – Ci sono anche imprese italiane che lavorano per grandi opere nel Paese. Mi auguro che non vengano distrutte le grandi infrastrutture che sono utili al popolo del Sudan”.