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CONTINENTE NERO

Sudafrica, il partito di Mandela perde, ma solo per faide interne

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Il Sudafrica ha votato e, per la prima volta in 30 anni, l'Anc (fondato da Mandela) perde la maggioranza assoluta. Ma non per una ribellione alla sua corruzione, bensì per la scissione di Zuma.

Esteri 04_06_2024
Elezioni in Sudafrica, arrivo dei risultati (La Presse)

Il 29 maggio il Sudafrica è andato alle urne per rinnovare l’Assemblea Nazionale, la camera bassa del Parlamento alla quale spetta il compito di eleggere il capo dello Stato. Dalla fine dell’apartheid nel 1994, l’Assemblea Nazionale è stata dominata dall’Anc, l’African National Congress, il partito di Nelson Mandela, che ha sempre vinto con ampio margine. Nel 2004 ha registrato il suo risultato migliore conquistando il 70% dei voti. Quest’anno, per la prima volta, i suoi leader hanno dapprima temuto e poi, con l’avanzare della campagna elettorale, previsto di perdere la maggioranza. La peggiore delle ipotesi era di scendere al 45%, il che avrebbe comunque consentito al partito di conservare il controllo dell’Assemblea, e quindi del paese, grazie al sostegno di qualche partito minore. Invece ha ottenuto soltanto il 40% dei voti, 17 punti percentuali meno che alle elezioni precedenti, nel 2019. I seggi nell’Assemblea Nazionale sono 400, occorre conquistarne 201 per avere la maggioranza. Nel 2019 l’Anc ne ha ottenuti 230, adesso gliene restano 159.

Che il partito stesse perdendo consenso si era capito e si sapeva anche perché. Il bilancio dei 30 anni trascorsi dalla fine del regime di apartheid non è affatto positivo: il tasso di disoccupazione, 33%, è  tra i più alti del mondo, su quasi 62 milioni di abitanti, 21 milioni dipendono dall’assistenza pubblica, il 60% dei giovani vive sotto la soglia di povertà. Le conseguenze in termini di insicurezza, di degrado materiale e morale crescenti hanno raggiunto livelli insostenibili per buona parte della popolazione, nera e bianca, a fronte di una minoranza, quella che detiene il potere politico ed economico, ostentatamente corrotta. Poiché in tutti questi anni l’agenda politica è stata dettata da Nelson Mandela e dai suoi successori, era prevedibile che ricadesse sulla Anc la responsabilità delle promesse tradite, delle aspettative deluse.

Sarebbe una notizia positiva se tanti sudafricani avessero deciso di dimostrare con il voto il loro disappunto. Ma l’analisi dei risultati elettorali ci dice che non è cosi, se non in piccola misura. Invece la causa si direbbe decisiva della prima sconfitta elettorale dell’Anc è sostanzialmente uno scontro interno, la guerra dichiarata all’Anc da Jacob Zuma, il predecessore dell’attuale presidente Cyril Ramaphosa. Zuma è il leader di un nuovo partito fondato lo scorso dicembre, noto come MK, uMkhonto we Sizwe, che in lingua Zulu vuol dire “Lancia della Nazione”. Grazie soprattutto alla sua provincia di origine, il KwaZulu Natal, ha ottenuto il 15% dei voti che gli assicurano 58 seggi all’Assemblea Nazionale.

Zuma sostiene di essere sceso in campo perché l’Anc ha abbandonato le proprie radici, dicendo che ora la sua missione è “salvare il movimento che un tempo è stato grande”. Sembrano bei propositi, ma Zuma nel 2018 è stato costretto a dimettersi a causa della crisi economica in cui ha affondato il paese negli anni, dal 2009 al 2018, del suo mandato e più ancora per l’entità degli scandali legati alla corruzione, eccessivi persino in un paese come il Sudafrica dove la corruzione è diventata “stile di vita”, come dicono in Nigeria, e pervade ogni settore della vita economica e sociale. Con Zuma però si è toccato il fondo. Le sue spese personali sono diventate sfrenate, le più clamorose giustificate come di pubblica utilità. È il caso dei 16 milioni di dollari attinti alle casse dello stato e spesi per ampliare e abbellire una proprietà di famiglia pretendendo di farne una residenza sicura e accogliente per capi di stato in visita ufficiale. Inoltre un rapporto pubblicato nel 2016 ha fornito le prove di quello che è stato chiamato “state capture”, sequestro dello stato. Zuma aveva concesso a una potente famiglia di origine indiana, i Gupta, di disporre delle istituzioni pubbliche a discrezione tanto da poter nominare delle proprie persone a cariche elevate e a posizioni chiave, ostacolare le forze dell’ordine, aggirare il controllo parlamentare, manipolare i mass media.

Eppure contro l’Anc tanti hanno votato proprio lui, presumibilmente quindi, almeno in gran parte dei casi, non per esprimere una voglia di cambiamento, per dare un segnale a chi governa, togliere consenso a un partito che ha fallito e deluso, ma per rafforzare la propria etnia, il proprio territorio restituendo al leader che li rappresenta parte del potere perduto.

C’è piuttosto un reale, consistente e incontestabile indicatore di disaffezione e di protesta ed è dato dall’affluenza alle urne. Fonti governative indicano che sono andati a votare il 58,57% degli iscritti alle liste elettorali. È la percentuale più bassa mai registrata. Confrontando il dato con quelli relativi alle precedenti elezioni è evidente la costante diminuzione dell’affluenza. Nel 1994 la frequenza era stata del 86,87%. Dieci anni dopo, nel 2004, era scesa al 76,70% e alle ultime elezioni, nel 2019, è stata soltanto del 66,05%.

Nei prossimi giorni i partiti maggiori faranno le loro mosse, ma anche quelli minori. DA, Democratic Alliance, il partito di John Steenhuisen, con il 21% dei voti e 87 seggi, si conferma il secondo partito. EFF, l’Economic Freedom Party di Jilius Malema, ha ottenuto il 9,5% delle preferenze e 39 seggi, ma è stato scalzato dalla terza posizione dall’MK.