Sud Sudan, sempre peggio. Si arriva al cannibalismo
Il 9 luglio 2011, il Sud Sudan dichiarava l'indipendenza dopo 20 anni di resistenza armata e un tentativo di genocidio del regime di Khartoum. Ricco di risorse petrolifere, assistito, libero, il Sud Sudan prometteva bene. Ma nel 2013 è scoppiata la guerra civile fra le etnie Dinka e Nuer. Ed è iniziata la discesa agli inferi.
Più di 50.000 morti, oltre due milioni di profughi e sfollati, almeno mezzo milione di bambini che non vanno più a scuola, 13.000 che combattono, arruolati a forza nell’esercito governativo e dalle milizie antigovernative, un terzo della popolazione – quattro milioni su 12 milioni di abitanti – senza sufficienti mezzi di sussistenza su cui incombe lo spettro della carestia, 30.000 persone a rischio imminente di morte per fame, sette accordi di cessate-il-fuoco concordati e mai rispettati, violati prima ancora che le delegazioni firmatarie rientrassero a casa: sono le cifre dell’insensata guerra civile scoppiata due anni fa in Sud Sudan, il più giovane stato del mondo, nato nel 2011 per secessione dal Sudan.
Al di là dei numeri, famiglie con bambini piccoli che sopravvivono mangiando erba e foglie, violenze, torture, stupri, sequestri, omicidi brutali: il consueto calvario dei civili in tutte le guerre africane, ma con livelli di crudeltà e accanimento che, come sostengono da oltre un anno organizzazioni non governative e agenzie dell’Onu, vanno ben oltre lo scontro di potere che ha innescato il conflitto. Una commissione d’inchiesta dell’Unione Africana ha raccolto testimonianze di esecuzioni di massa, massacri, di persone mutilate, bruciate vive, di gente persino costretta a bere il sangue di membri della propria etnia appena uccisi e a mangiarne la carne.
Il rapporto della commissione, appena reso pubblico, denuncia crimini di guerra e contro l’umanità e raccomanda la creazione di una Corte di giustizia indipendente, incaricata di individuare e giudicare i responsabili che potrebbero essere migliaia, come nel caso del genocidio del Rwanda nel 1994, a meno che non si decida di perseguire soltanto i leader politici e le gerarchie militari assolvendo gli autori materiali dei crimini: in gran parte militari e miliziani, ma non solo perchè, come in Rwanda e in altri paesi, l’odio tribale, quando si scatena, trasforma uomini e donne comuni, padri e madri di famiglia, in mostri, in carnefici senza rimorso.
A rendere ancora più tragico, inconcepibile quello che sta succedendo è il fatto che quattro anni fa gli abitanti dell’attuale Sud Sudan, in prevalenza cristiani e animisti, ottenendo l’indipendenza dal Sudan si sono lasciati alle spalle mezzo secolo di persecuzioni da parte della popolazione arabo islamica, concentrata nel nord del Sudan, e 20 anni di resistenza armata contro il programma di islamizzazione imposto dal presidente sudanese Omar Hasan al Bashir: un’agonia terminata con quasi due milioni di morti, quattro milioni di profughi, un paese esausto, in macerie, del tutto privo di infrastrutture e servizi. Tuttavia il Sud Sudan il 9 luglio 2011 si è ritrovato non solo libero dall’oppressione del regime di Khartoum e ben assistito dalla comunità internazionale nell’opera di organizzazione delle istituzioni politiche e civili e nella ricostruzione post bellica, ma anche enormemente ricco, grazie ai giacimenti di petrolio del Sudan, per tre quarti situati nel proprio territorio, e con a disposizione un’ulteriore, preziosa risorsa costituita da una popolazione in gran parte giovane: il 65% dei sud sudanesi ha meno di 25 anni.
Invece tutto è andato perduto. Prima c’è stato il blocco quasi totale delle attività estrattive e quindi il crollo dei proventi derivanti dalla vendita del petrolio, principale voce del bilancio nazionale. Per esportare il greggio il Sud Sudan per ora deve usare gli oleodotti che dai suoi giacimenti portano il prodotto fino al Mar Rosso, attraversando quasi tutto il Sudan. Khartoum ha preteso dazi elevati e il governo sud sudanese non ha saputo trattare e trovare un accordo.
Corruzione e tribalismo hanno fatto il resto. Dinka e Nuer, le due etnie più potenti, si erano spartite gran parte delle cariche politiche e amministrative a partire dal vertice, con un Dinka, Salva Kiir, presidente della repubblica, e un Nuer, Riek Machar, vicepresidente. Ma, dopo i primi mesi, il presidente Kiir ha incominciato ad accentrare il potere nelle proprie mani e in quelle dei suoi uomini. Machar nell’agosto del 2013, sollecitato della crescente insofferenza dei Nuer, annunciava di volersi candidare alla presidenza alle successive elezioni. Kiir lo ha immediatamente destituito, accusandolo poi di aver tentato un colpo di stato. In poche settimane la situazione è degenerata. L’esercito si è diviso su base etnica. Dopo i primi scontri armati circoscritti alla capitale Juba, il conflitto si è rapidamente esteso coinvolgendo i civili sia come vittime sia come combattenti schierati con i leader delle rispettive etnie.
La commissione istituita dall’Unione Africana, nel suo rapporto, sostiene di non credere che il vicepresidente Machar avesse tentato un colpo di stato: non ci sono prove in tal senso – si legge nel documento – mentre abbondano quelle che dimostrano come i successivi massacri di militari e civili Nuer siano stati operazioni militari organizzate, in gran parte compiute da soldati dell’esercito e milizie armate Dinka. D’altra parte, sostiene la commissione, le forze schierate con Riek Machar si sono a loro volta rese responsabili di abusi altrettanto “terribili e terrificanti”: quanto terribili e terrificanti è descritto nel rapporto.
Il 28 ottobre le Nazioni Unite hanno rivolto un appello ai contendenti affinchè concedano alle agenzie umanitarie l’autorizzazione a muoversi nel paese senza restrizioni per assistere la popolazione.