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LO STUDIO

Successo a scuola, la fede conta

Gli studenti devoti mostrano più possibilità di eccellere sia alle superiori che all’università. Il dato emerge da uno studio della sociologa Ilana M. Horwitz, agnostica. Secondo la studiosa, il segreto sta nella mentalità e nel metodo che la religione trasmette. Vero, ma c’è anche un motivo in più.

Educazione 29_01_2022

In un tempo in cui la pandemia ha reso complicato il solo ritrovarsi in presenza, uno dei temi che ritorna maggiormente, nell’attualità come nella cronaca, è - come noto - quello della scuola e della sua cruciale importanza, in particolare per la socialità e la formazione dei giovani. Arriva quindi particolarmente gradito, in un periodo così, uno studio che, centrato proprio sul tema scolastico, ricorda come uno degli elementi di maggior sostegno dei giovani sia... la fede.

Si tratta di God, Grades, and Graduation: Religion's Surprising Impact on Academic Success (Oxford University Press, 2022), l’ultima fatica della sociologa e accademica Ilana M. Horwitz. Premessa: non si sta parlando di un’autrice sospettabile di partigianeria cattolica né di aver voluto redigere un testo in qualche misura apologetico. La Horwitz, infatti, viene da studi sul genere e sulle questioni razziali e si definisce tendenzialmente agnostica. Ciò nonostante, ha realizzato un lavoro sì di valore – in questi giorni ne ha parlato perfino il Wall Street Journal – ma pure d’indubbio interesse per chi abbia a cuore certi valori. Vediamo perché. Attingendo da varie fonti, che includono il National Study of Youth and Religion, la National Student Clearinghouse nonché oltre 200 interviste, la sociologa ha sostanzialmente scoperto che non solo la religiosità incide nel rendimento scolastico dei giovani, ma lo fa in modo positivo e nel corso di diversi gradi di formazione.

Più precisamente, la studiosa ha messo in luce come, alle superiori, gli studenti devoti abbiano il 10% in più di possibilità di eccellere, un vantaggio definito «statisticamente abbastanza consistente». Non solo. In seguito, quegli stessi studenti hanno circa il 40% in più di probabilità di conseguire la laurea. Da notare come il sostegno didattico riconducibile alla religiosità, di cui si sta parlando, è stato osservato anche tenendo sotto controllo eventuali altri fattori confondenti, quali il reddito familiare, il genere e il contesto di provenienza. Parliamo dunque di un dato sicuro, per non dire pressoché inattaccabile.

Tutto questo però, non elimina ma, anzi, rafforza un quesito di fondo: come mai tutto ciò? In che senso la religione e la fede «aiutano» i giovani a scuola? Secondo la professoressa Horwitz, il segreto sta nella mentalità e nel metodo che la religione trasmette, all’insegna di coscienziosità, autodisciplina, organizzazione e rispetto delle regole, dell’essere perseveranti e cooperativi. A queste spiegazioni, senz’altro fondate, ci permettiamo di aggiungere anche il senso della vita che la religione – intesa come pratica religiosa concretamente vissuta, non come vaga credenza – infonde nei giovani, con delle conseguenze non solo scolastiche.

Prova ne è il fatto che, se si vanno a vedere altre statistiche (verifica già attuata da altri studiosi), gli studenti cristiani (mancano, ad oggi, dati accurati su quelli di altre confessioni) sono anche quelli che marinano meno la scuola, o non la marinano affatto, che fanno meno abuso e uso di alcol, tabacco e droghe. Ciò non toglie, beninteso, come pure la stessa istruzione religiosa, in quanto tale, abbia un suo bel peso, positivo, nel traghettare i giovani verso una vita adulta davvero matura.

Un’indagine dell’Institute of Family Studies e dell’American Enterprise Institute dello scorso anno, per esempio, aveva a questo proposito messo in luce come chi venga da una scuola cattolica abbia il 30% in meno di probabilità di aver avuto un figlio fuori dal matrimonio rispetto a chi si è formato in una scuola pubblica; quindi anche il frequentare una scuola di un certo tipo anziché un’altra, lo si ribadisce, conta. La differenza, in partenza, la fa però la fede. E che oggi sia una sociologa non cristiana a spiegarlo, come fa Ilana M. Horwitz, non fa che confermare la solidità di questo rilevantissimo dato.