Studenti ignoranti? Per educarli ci vuole un "villaggio"
I giovani laureati fanno errori da terza elementare. L’appello di 600 professori universitari al Parlamento è la spia di un problema che riguarda tutti i giovani. E' un lascito del sistema scolastico italiano, centralista e burocratico. Serve tornare alla comunità, al "villaggio", come lo chiama Papa Francesco.
«Nelle tesi di laurea, errori da terza elementare. Bisogna ripartire dai fondamentali: grammatica, ortografia, comprensione del testo». L’appello accorato che 600 professori universitari hanno sottoscritto al Parlamento, per mettere in campo un piano di emergenza che rilanci lo studio della lingua italiana nelle scuole elementari e medie, ha immediatamente infiammato il dibattito pubblico.
Il fenomeno è evidente, e non solo nelle tesi di laurea. Basta un’occhiata ai commenti postati nei social network per rendersi conto che è saltata ogni regola: accenti, apostrofi e punteggiatura messi a caso o del tutto assenti, abbreviazioni, storpiature e neologismi improbabili, anacoluti, strafalcioni grammaticali e sintattici.
Non è la prima volta che i docenti universitari denunciano le gravi carenze linguistiche dei loro studenti; nel tentativo di porvi rimedio, alcune facoltà hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana. Anche dall’ultimo rapporto Ocse-Pisa, che misura le competenze dei quindicenni di numerosi paesi, i nostri ragazzi sono usciti con le ossa rotte, soprattutto in italiano. Dal 2000 a oggi non abbiamo recuperato neanche mezza posizione, mentre in matematica, dove pure eravamo molto più indietro, abbiamo fatto passi avanti.
E, ancora più preoccupante, il fenomeno investe non solo i giovani, ma in parte anche persone adulte che, in teoria, dovrebbero aver imparato la grammatica e l’uso della lingua italiana in tempi non sospetti. Giornalisti compresi, talvolta …
Il problema è molto complesso e sicuramente riconducibile ad una molteplicità di fattori che, per essere adeguatamente analizzata, richiederebbe una lunga e complessa trattazione. Per semplificare, diciamo che probabilmente stiamo risentendo di una svalutazione della grammatica e dell’ortografia che risale agli anni ‘70. Dopo le proteste del ’68, che miravano innanzitutto a sgretolare il sistema di norme della “società borghese”, si volle “rinnovare” l’assetto educativo e formativo della scuola, rispolverando teorie pedagogico-didattiche che puntavano più sui processi che sulle regole, più sui metodi che sui contenuti.
Furono prese a modello (per citarne solo alcune) lo spontaneismo rousseauiano, l’autoeducazione della “scuola attiva” (che si oppone ad una vecchia idea di scuola statica e conservatrice, tendente a riproporre sempre i soliti principi ritenuti validi in assoluto), l’attivismo pedagogico di Dewey, in cui la scuola è concepita innanzitutto come istituzione sociale, fino alla ciliegina sulla torta degli ultimi anni, che è stata la pedagogia strutturalista di Bruner. Secondo tale teoria, piuttosto che contenuti, la scuola deve fornire strumenti e sviluppare capacità che rendano gli individui disponibili ad apprendere. L'alunno deve innanzitutto "imparare ad imparare", e ciò è possibile attraverso l'apprendimento delle strutture disciplinari.
Non si vuole affermare che queste scuole di pensiero siano del tutto errate, però certe teorie sono state di volta in volta assolutizzate e prese a riferimento indiscutibile per il “rinnovamento” dei programmi degli istituti di ogni ordine e grado, senza gradualità e senza una sperimentazione adeguata. Chi ha vissuto gli ultimi decenni dentro la scuola, sicuramente ha presente il disorientamento e la confusione che ne sono scaturiti.
Buttare tutta la croce sulle spalle della scuola sarebbe però un errore. Certamente il sistema nazionale di istruzione ha sofferto e soffre di un degrado progressivo sotto molteplici profili. Ma questo è una causa o solo lo specchio di qualcosa che ha origine altrove? E, soprattutto, tornare al dettato, agli esercizi di ortografia e di grammatica, all’analisi logica e del periodo, sarebbe sufficiente a invertire la tendenza in atto?
A mio parere, no. E provo a spiegare perché. La crisi della scuola è andata di pari passo con la trasformazione della società intera, che negli ultimi decenni ha avuto una accelerazione impressionante. Il sistema educativo, che in Italia è ancora un moloch burocratico e centralistico, non solo non è riuscito a tenere il passo, ma ha risentito in pieno della disgregazione del tessuto sociale che ne è conseguita.
Se una volta, per i giovani, parlare, leggere e scrivere correttamente era una avvertita come una necessità indiscutibile, oggi non è più così. Se, per esempio, si voleva comunicare con un familiare o un amico lontano, erano necessari carta, penna e competenze linguistiche; oppure, se si doveva realizzare una ricerca, bisognava sfogliare l’enciclopedia, cercare i testi e scrivere, scrivere, scrivere… Per esprimere bene concetti e idee, era indispensabile acquisire il necessario patrimonio lessicale attraverso la lettura, con un paziente esercizio, nel tempo.
Oggi non è più così, perché è tutto disponibile sul web e raggiungibile con grande velocità (la velocità, una delle caratteristiche fondamentali del nostro tempo…) grazie al pc, al tablet, allo smartphone…. E si può comunicare in tempo reale con l’amico (di carne o virtuale) che è a casa sua o dall’altra parte del mondo semplicemente usando un’applicazione elettronica, mettendo “faccine” (emoticon) anziché provare a descrivere i sentimenti, abbreviando le parole o condensando i concetti con un #hashtag, per fare prima e poter dire più cose…
Perché, dicono, dovrei imparare a leggere, scrivere e parlare come si faceva una volta? Non serve, è roba da vecchi! Hai voglia, tu, a dire ai ragazzi che imparare e leggere, scrivere e parlare correttamente è ancora importante, anzi importantissimo, non solo perché è necessario nelle relazioni quotidiane e nel lavoro, ma anche perché così si impara a pensare e a pensare bene. Non ci credono, non gli interessa. E non perché siano cattivi, ma semplicemente perché per loro il mondo va da un’altra parte e la vita ha esigenze del tutto diverse. Tra l’altro, li abbiamo convinti che il progresso tecnologico andrà avanti ancora in modo esponenziale, e se tanto mi dà tanto… Ci sono giovani che scrivono solo in stampatello perché il corsivo (che è espressione della tua personalità, del tuo rapporto unico con la scrittura e con la realtà) non è più necessario; gira anche la voce che negli Stati Uniti, che sono sempre più “avanti” di noi, ci siano ormai molti giovani che sanno scrivere esclusivamente usando la tastiera del pc. Sarà una leggenda metropolitana? Forse; ciò che è certo, comunque, è che per molti studenti quello che si fa a scuola è avvertito come superato e ininfluente per la vita “reale”. Lo dicono esplicitamente. E le scuole, così come la famiglia, si trovano ad essere sole nell’affrontare il problema, perché tutte le alleanze educative che una volta sostenevano la loro azione sono venute meno. Sole di fronte al bombardamento mediatico e dei social che veicola idee, pseudo-valori e immagini di ogni tipo.
Per questo, credo che tornare al dettato, agli esercizi di ortografia e di grammatica, all’analisi logica e del periodo, benché doveroso, ma non sarà sufficiente a invertire la tendenza in atto. Gli strumenti di cui la famiglia e la scuola possono disporre saranno armi spuntate sino a che non si tornerà a stringere quelle alleanze educative così indispensabili perché i giovani non paghino più quella schizofrenia sociale che oggi caratterizza il nostro vivere: tutti comunicano con tutti ma ognuno vive per conto proprio, e spesso tutti contro tutti.
Tempo fa, Papa Francesco, rispolverando un antico proverbio africano disse: “Per educare un bambino ci vuole un villaggio”. Ed è proprio così. Ma per ricostruire il villaggio occorre tornare a riconoscere qual è il patrimonio culturale che ci unisce e superare il centralismo burocratico della scuola di Stato, che ha annichilito il desiderio di partecipazione e di collaborazione delle famiglie all’azione educativa e formativa della scuola. Occorre favorire e sostenere la realizzazione libera di luoghi in cui i giovani possano vivere relazioni autentiche, sperimentarsi in prima persona nel fare cose con gli altri e per gli altri, fare esperienza della bellezza dell’arte, della letteratura, del canto e della natura. Anziché passare il tempo davanti al monitor del pc o al display dello smartphone…
E l’esempio di molte scuole paritarie, nelle quali la dinamica del “villaggio” educativo si sta attuando in modo efficace e con risultati interessanti (si vedano, ad esempio, tanti bellissimi video presenti su You Tube), sia di indirizzo e di stimolo a chi dovrebbe prendere decisioni per attuare il piano di emergenza chiesto dai 600 professori. Diversamente, almeno si smetta di lamentarsi.