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MEDIO ORIENTE

Stipendi ai palestinesi in carcere, stimolo al terrore

Assegni alle famiglie, liquidazione e solide promesse di carriera per i palestinesi arrestati dagli israeliani. Chi delinque di più, guadagna di più. E l'Europa continua a dar soldi alla Palestina, illudendosi che sia la parte povera e oppressa.

Esteri 28_06_2014
Palestinesi in carcere

Il 25 giugno scorso, sul tavolo di Netanyahu, premier israeliano, è atterrato un dettagliato rapporto di cui ha scritto Fiamma Nirenstein, corrispondente da Israele de Il Giornale. È interessante e ci riguarda, perché l’Italia ha versato in dieci anni nelle casse palestinesi almeno 220 milioni di euro. E molti di più ne ha versati la Ue, allo scopo di sostenere un popolo con alti indici di povertà e, soprattutto, un processo di pace che da sempre stenta a decollare. Una pace che, procedendo tra stop and go, sempre più assomiglia a una chimera. Com’è noto, l’Autorità palestinese ha cooptato al governo anche Hamas, cosa che, secondo tutti gli osservatori, spinge ancora più in là la conclusione del famoso processo di pace.

Israele, per ottenere il rilascio di un soldato semplice, uno solo, sequestrato da cinque anni, ha consentito a liberare mille detenuti condannati per terrorismo, alcuni a più ergastoli. Uno scambio oltremodo impari, ma giudicato conveniente dal governo israeliano, il quale insiste su un’opinione pubblica diversa da quella palestinese. Questa, sul suo territorio, espone ovunque i ritratti degli shahid, i «martiri», dedica loro canzoni e piazze, ne narra le gesta eroiche nelle scuole.

Ora, di che cosa tratta il rapporto sottoposto all’attenzione di Netanyahu? Dei tariffari degli stipendi che i palestinesi detenuti per terrorismo nelle carceri israeliane ricevono mensilmente dall’Autorità palestinese. Da uno a tre anni di condanna, 1.500 dollari. E poi, su su fino a 3.500 e oltre. Dati alle famiglie di chi ne ha una o tenuti da parte e versati alla liberazione. Chi esce di galera ha pure diritto alla liquidazione, che può raggiungere i 60mila dollari. I liberati, grazie alla loro esperienza e attitudine alle armi, sono inquadrati nelle forze armate, e anche qui c’è una graduatoria: se hai scontato cinque o sei anni diventi ufficiale, se ne hai fatti trenta, generale o addirittura ministro. Così, per esempio, se un ventenne si fa vent’anni per terrorismo, all’uscita non ha che quarant’anni e trova soldi, carriera e onori.

Ora, è ovvio che tutto ciò finisca per costituire un incentivo ai giovani, specialmente in un paese che non offre molte prospettive. Da qui la preoccupazione di Netanyahu, anche perché – ed era facile prevederlo - lo scambio di un soldato contro mille detenuti potrebbe avere indotto i sequestratori a riprovarci. Infatti, in questi giorni si setaccia il setacciabile per trovare tre giovani israeliani scomparsi da diversi giorni, e c’è chi teme, appunto, un altro rapimento a scopo di scambio. Se così fosse, Abu Mazen dovrebbe trovare i soldi per sussidiare i liberati (che, visto il precedente, potrebbero essere anche tremila) in mancanza di posti disponibili nell’amministrazione o nell’esercito. Ma i soldi al governo palestinese non mancano, visto chi glieli dà. E chi glieli dà continua ad essere convinto che, quello, sia un «popolo oppresso» e che il cattivo della situazione sia sempre e comunque l’Israele che costruisce «muri della vergogna».

È pur vero che il governo israeliano non di rado ha la mano pesante, ma è anche vero che quei muri hanno drasticamente ridotto gli attacchi terroristici sul suo territorio. Tuttavia, è dai tempi di Arafat che, prima le sinistre e ora il governo europeo, c’è negli ambienti che contano una speciale simpatia per la causa palestinese, vista come il proletariato oppresso e sfruttato del Medioriente. L’unico che, in tempi recenti, è riuscito a fare qualcosa sulla via della pace è stato il papa, che ha ottenuto la presenza del presidente israeliano Shimon Peres e del palestinese Abu Mazen per una preghiera comune in Vaticano. Gesto solo simbolico, certo, ma è molto di più di quel che hanno fatto i tour de force diplomatici del ministro degli esteri americano John Kerry. Anche i francescani di Assisi, in quei giorni, hanno voluto omaggiare Abu Mazen, visitandolo nel suo hotel romano e donandogli la lampada «Luce di San Francesco». Con loro c’era il sindaco, che ha conferito ad Abu Mazen la cittadinanza onoraria (Assisi è gemellata con Betlemme, che è sotto giurisdizione palestinese). Hanno fatto lo stesso con Peres? Chissà.