Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santa Francesca Saverio Cabrini a cura di Ermes Dovico

CROAZIA

Stepinac, chi non vuole la canonizzazione

Le proteste della Serbia "frenano" il processo di canonizzazione del famoso cardinale arcivescovo di Zagabria, martire del comunismo titino, che sembrava ormai a un passo. Un pericoloso precedente che si ripercuoterà su altre cause in corso che riguardano l'ultimo secolo di storia croata.

Ecclesia 05_07_2015
Il cardinale Stepinac

Le speranze dei cattolici croati di vedere presto canonizzato il beato cardinale Alojzije Stepinac, arcivescovo di Zagabria, martire del comunismo titino, si sono notevolmente affievolite. Lo scorso 28 maggio, infatti, mentre la Presidente croata, Kolinda Grabar Kitarović, incontrava papa Francesco in Vaticano, e di concerto con i vescovi croati, invitava il Pontefice in Croazia affinché, tra l'altro, avesse luogo la canonizzazione di Stepinac, l'inviato speciale del Papa, il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani, s'incontrava a Belgrado con il Presidente della Serbia, l'ultra-nazionalista Tomislav Nikolić, proprio per parlare di Stepinac, come confermato anche dall'agenzia di stampa governativa Tanjug. 

Nikolić non ha usato mezzi termini, e ha affermato che la canonizzazione di Stepinac distruggerebbe tutto ciò che di buono è stato fatto finora per migliorare i rapporti tra la Croazia e la Serbia, e dopo avere sottolineato di provare «sincero rispetto per tutte le confessioni religiose presenti in Serbia», ha aggiunto: «Quindi, vi prego, dopo che avete contato i chicchi di grano in una mano, metteteli nell'altra mano e contateli di nuovo». Il messaggio è chiaro: la Chiesa non deve canonizzare Stepinac senza il consenso dei serbi – che, evidentemente, non ci sarà mai –, altrimenti le tensioni tra serbi e croati, e di conseguenza tra la Chiesa ortodossa e quella cattolica, potrebbero di nuovo acuirsi. 

La posizione serba, peraltro già nota, è stata ben compresa in Vaticano, e infatti, secondo quanto riferito dalla Presidente croata, papa Francesco le avrebbe rivelato che, pur non essendoci dubbi sulla persona del cardinale Stepinac, «nel frattempo è stata istituita una commissione mista con la Chiesa ortodossa al fine di valutare ancora alcuni aspetti». Un’ulteriore conferma di questa frenata viene dall’incontro di Belgrado. Nel comunicato ufficiale si legge che il cardinale Koch «ha proposto la formazione di un gruppo di esperti della Chiesa cattolica e della Chiesa ortodossa serba, la quale indagherà su tutte le circostanze storiche, e cercherà, attraverso il dialogo, di creare un'atmosfera di collaborazione e di comprensione». La Presidente croata ha lamentato che una tale iniziativa avrebbe dovuto essere presa molto prima, tuttavia appare evidente come la creazione di questa commissione rappresenti il segnale che la Santa Sede ha recepito i desiderata serbi. Il dialogo con gli ortodossi è troppo importante, e la canonizzazione del beato Alojzije Stepinac, almeno per il momento, non s‘ha da fare. 

Questa decisione, presa nella speranza, in verità piuttosto labile, che col tempo i malumori dei serbi si stemperino, crea un pericoloso precedente per altre cause di beatificazione e canonizzazione che si riferiscono all’ultimo secolo di storia del popolo croato, caratterizzato, fin dalla fondazione, nel 1918, del primo Stato unitario -  più tardi chiamato Jugoslavia - da un forte conflitto tra croati e serbi, e soprattutto ai cinquant’anni di dittatura comunista.

Ciò vale, ad esempio, per il processo di beatificazione della Serva di Dio Marica Stanković, suora laica condannata nel 1948 da un “Tribunale del popolo” per avere guidato, come si legge nell’atto d’accusa, un'«organizzazione ustascio-terroristica» - tale veniva giudicata l'Azione Cattolica dal regime comunista -. Lo stesso destino potrebbe essere riservato alla causa relativa ai frati francescani martiri di Široki Brijeg e dell'Erzegovina, uccisi durante la Seconda Guerra Mondiale dai partigiani titini in quanto falsamente accusati di collaborazionismo con il regime ustascia e l'occupante tedesco. In questo clima, non migliore sorte attenderebbe la causa di beatificazione, recentemente avviata, del cardinale Franjo Kuharić, arcivescovo di Zagabria dal 1970 al 1997, cui i serbi rimproverano l’appoggio dato all’azione militare “Tempesta” del 1995, e anche quella del primo arcivescovo di Vrhbosna (Sarajevo), Josip Stadler, morto nel 1918, che, in difesa della fede cattolica, entrò in conflitto con la Chiesa ortodossa serba. Le beate martiri della Drina, suore di varie nazionalità uccise dai serbo-cetnici nel 1944 nei pressi di Sarajevo, difficilmente riceverebbero il placet per la canonizzazione da una Commissione nella quale i serbi hanno diritto di veto, giacché questi considerano l’essere cattolico sinonimo di ‘ustascia’. 

Come dimostrato dall’abbondante documentazione storica che lo riguarda, la figura del beato Stepinac è assolutamente limpida. Pur accogliendo favorevolmente l’indipendenza della Croazia proclamata nel 1941, egli conservò una lucida capacità di giudizio sul regime ustascia, avvertendo che la benedizione di Dio poteva scendere sul Paese e sul popolo croato solamente se si fosse osservata la Legge di Dio quale espressa nei Dieci Comandamenti. In diverse omelie egli condannò coraggiosamente le stragi di serbi, ebrei e rom attuate dalle milizie ustascia, denunciando la politica razziale del governo croato attuata su imitazione di quella della Germania nazista, scrisse numerose e vibrate lettere di protesta al Poglavnik (Duce), Ante Pavelić, per le violenze commesse nei confronti delle minoranze, giungendo, in una di queste, a definire il lager di Jasenovac, dove morirono decine di migliaia di persone di etnia serba, ebraica e rom, ma anche oppositori del regime e sacerdoti cattolici, una «macchia sul popolo croato». 

Nell'azione del beato Stepinac non mancò l'aiuto fattivo ai perseguitati, a qualsiasi popolo essi appartenessero. Secondo documenti dell'intelligence britannica, già nel 1941 egli guidò una delegazione che incontrò Pavelić per protestare contro la deportazione di ebrei e serbi. Egli spesso intervenne presso le autorità dello Stato raccomandando richieste della comunità ebraica, chiedendo la scarcerazione di persone arrestate, e perfino di persone accusate di collaborare con i partigiani. In un promemoria inviato dal funzionario ebraico Weltmann al delegato apostolico in Turchia, mons. Angelo Roncalli, il futuro papa Giovanni XXIII, si legge: «Sappiamo che mons. Stepinac ha fatto tutto ciò che era nelle sue possibilità per aiutare e attenuare lo sfortunato destino degli ebrei in Croazia … La preghiamo di comunicare a mons. Stepinac l'espressione del nostro profondo ringraziamento per l'aiuto che ha porto, e lo preghiamo di continuare un'azione così onorevole di salvare i nostri fratelli, sorelle e figli… ». 

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, in un clima di inaudita violenza contro la Chiesa cattolica, Stepinac fu arrestato dalle autorità comuniste una prima volta il 17 maggio 1945, e trattenuto in carcere fino al 3 giugno. Il giorno dopo la sua liberazione, egli fu convocato da Tito, il quale gli offrì la guida di una cosiddetta “Chiesa cattolica popolare”, separata da Roma, con la promessa di una posizione di onore nel nuovo Stato jugoslavo a guida comunista. Stepinac rifiutò, firmando in questo modo la sua condanna. Egli fu quindi di nuovo arrestato, sottoposto a un processo-farsa di stampo stalinista, e condannato a sedici anni di reclusione in regime di carcere duro. Dopo cinque anni di prigionia nel carcere di Lepoglava, sottoposto a continui maltrattamenti, umiliazioni e a diversi tentativi di avvelenamento, fu assegnato al confino nella parrocchia natia di Krašić, non lontano da Zagabria, dove fu tenuto prigioniero fino al 1960, quando morì per le conseguenze dell’avvelenamento subito in carcere. 

Il beato Alojzije non si piegò mai dinanzi ai senzadio di ogni colore e ideologia, e nonostante gli allettamenti del mondo e la prova della persecuzione, rimase fedele a Cristo e alla Chiesa, ed è a lui che dobbiamo il fatto che oggi il popolo croato, nella sua maggioranza, sia ancora cattolico, e resista alle lusinghe delle nuove ideologie che mettono in pericolo la vita e la famiglia.