Spread alle stelle. Tutta colpa dell'Ue? No, non tutta
Memori della crisi del 2011, quando Berlusconi fu in tutti i modi spinto alle dimissioni dai partner europei, anche oggi pare ripetersi lo stesso scenario col governo Conte. Piovono critiche da Bruxelles e lo spread schizza alle stelle. Ma il governo ci sta mettendo del suo, con una manovra annunciata tutta a debito che non può che destare preoccupazione nei mercati.
Nel novembre 2011 il governo Berlusconi fu costretto a dimettersi per colpa delle pressioni europee, dello spread alle stelle e degli aggressivi attacchi degli speculatori, che gli avevano rivoltato contro i mercati. Che quell’esecutivo e chi lo presiedeva ci avessero messo del loro per rendersi ancora più vulnerabili in pochi lo negano, ma certamente furono determinanti le cospirazioni internazionali per provocarne la caduta. Le opposizioni dell’epoca negarono al governo di centrodestra l’alibi delle ostili trame internazionali e lo tacciarono di incapacità. Oggi la storia sembra ripetersi, anche se i protagonisti e i motivi del contendere sono diversi rispetto a sette anni fa.
In quegli anni per indebolire l’Italia e il suo governo dell’epoca i burocrati europei usarono le vicende personali dell’ex premier Silvio Berlusconi, lo scandalo Ruby, e alcune disavventure di ministri di punta, coinvolti in vicende giudiziarie molto eclatanti. Oggi il braccio di ferro tra esecutivo italiano e Unione Europea riguarda direttamente gli aspetti finanziari, i conti pubblici, la manovra di bilancio che il governo Conte ha annunciato di voler varare e che andrebbe contro gli accordi europei. Ma se è vero che le ingerenze di Bruxelles nelle vicende politiche ed economiche nazionali continuano ad essere eccessive, va altresì sottolineato che nel merito molti dei punti qualificanti il programma di questo governo italiano rischiano di dare ragione ai burocrati europei, che si dicono preoccupati per la possibile crescita del debito pubblico italiano. La flat tax, con aliquota unica al 15%, si sta rivelando irrealizzabile, tanto che l’esecutivo sta ripiegando su una graduale differenziazione della tassazione limitata alle partite Iva. Il superamento della legge Fornero pare insostenibile sul piano dei costi e della tenuta del sistema pensionistico italiano. Il reddito di cittadinanza rischia di innescare una spirale statalista e assistenzialistica difficilmente controllabile, soprattutto al Sud, con inevitabile penalizzazione dei ceti produttivi e del mondo imprenditoriale, dei commercianti e degli artigiani. Più che discutere, quindi, di liceità delle forzature ai parametri europei, bisognerebbe preoccuparsi di entrare nel merito dei singoli provvedimenti, valutandone la bontà e la funzionalità all’obiettivo fondamentale che questo governo si è posto: il rilancio del sistema Paese, dell’economia e dell’occupazione, la crescita del Pil e la graduale riduzione del debito pubblico.
I mercati infatti continuano a mostrare preoccupazione per le scelte economiche del nostro Paese e ieri al perdurante clima di incertezza hanno reagito come si prevedeva: lo spread ha sfondato quota 300 punti chiudendo ai massimi da aprile 2013, vale a dire a 303, con il rendimento del titolo decennale italiano che ha rivisto i livelli di inizio 2014 e si assestato al 3,44%. A seguito del varo della nota di aggiornamento del Def italiano, nella quale è stato alzato il tetto deficit/Pil al 2,4%, le parole più pesanti sono arrivate dal Presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, che, riferendosi all’Italia e all’obiettivo di un rapporto tra deficit e Pil in violazione del patto di stabilità, ha detto: «Se qualcuno chiedesse un trattamento speciale significherebbe la fine dell’euro. Non vorrei che dopo aver gestito la difficilissima crisi greca ci trovassimo in una nuova crisi greca questa volta in Italia». Il suo vice, Valdis Dombrovskis ha rincarato: «Il primo piano di bilancio italiano pare muoversi in una direzione che va ben al di là della flessibilità. Il Presidente Juncker ha detto che dobbiamo essere rigidi ma giusti. Ha chiesto un’applicazione equa delle regole. Come commissione Ue sapete che abbiamo presentato una comunicazione sul migliore uso della flessibilità nell’ambito del Patto di stabilità e crescita, e l’Italia è il Paese che trae maggiori vantaggi da questa flessibilità».
Il Ministro dell’Economia, Giovanni Tria, lunedì a Lussemburgo per l’Eurogruppo, ha provato a spegnere le tensioni: «Il 2,4% è un numero che non corrisponde esattamente ad alcune regole europee, ma fa parte della normale dinamica europea, è sempre accaduto a molti Paesi nel corso degli ultimi decenni, se andate a vedere il numero di Paesi che sono in regola con tutte le regole europee sono pochissimi». Più stroncatorio Matteo Salvini: «In Italia nessuno si beve le minacce di Juncker, che ora associa il nostro Paese alla Grecia. Vogliamo lavorare per rispondere ai bisogni dei nostri cittadini. I diritti al lavoro, alla sicurezza e alla salute sono priorità del governo e andremo fino in fondo. Alla faccia di chi rimpiange l’Italia impaurita, quella con le aziende e il futuro in svendita. Non ci fermeranno. Basta minacce e insulti dall’Europa, l’Italia è un paese sovrano». Dello stesso tenore le parole dell’altro vicepremier: «L'Ue ci minaccia ma non ci fermiano», ha assicurato Luigi Di Maio.
Ma il commissario Ue, Pierre Moscovici ha puntualizzato: «Il deficit del 2,4% per tre anni è una deviazione molto, molto significativa rispetto agli impegni presi dall’Italia». E gli analisti internazionali sembrano dargli ragione. Ieri sono arrivati due importanti report, uno di Goldman Sachs, prima banca d’affari americana e l’altro dell’agenzia di rating tedesca Scope. Per gli americani non ci sono dubbi: una manovra che preveda un rapporto deficit/Pil al 2,4% e basata su una politica fiscale espansiva, con meno tasse, «è destinata a far deviare la traiettoria del debito e questo avrà come conseguenza un maggior costo del credito sia per le imprese sia per i privati. Un’evoluzione che porterebbe a un minor surplus e a un incremento nei tre anni del rapporto deficit/Pil fino a sfiorare il 3% previsto da Maastricht». Sulla stessa lunghezza d’onda i tedeschi di Scope, che paventano rischi di peggioramento della situazione economica italiana.
Finirà come nel 2011, con i partiti costretti a fare un passo indietro e ad appoggiare un governo di emergenza come quello costituito da Mario Monti? Difficile che ciò accada, perché all’epoca i partiti di governo erano in calo di fiducia presso l’elettorato, mentre Lega e Cinque Stelle attualmente sembrano navigare col vento in poppa. E’ anche vero, però, che, come insegna la rapida eclissi del renzismo, i cicli politici si esauriscono ormai molto in fretta.