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ELEZIONI

Spagna frammentata, sintomo della malattia europea

Le elezioni in Spagna non hanno un vincitore chiaro, perché il Partito Popolare ha una maggioranza contesa da nuovi partiti anti-sistema, oltre che dai socialisti. E proprio per questo, le elezioni spagnole, nel loro piccolo, sono una sorta di riassunto di tutte le tendenze più diffuse nell'Europa occidentale.

Esteri 22_12_2015
Alberto Rivera (Ciudadanos)

“Lo diceva Felipe Gonzalez (l'ex premier socialista, ndr) già a maggio che la Spagna andava verso uno scenario italiano, ma con il grave problema che non ci sono italiani a gestirlo. Ecco, ci siamo”. El Pais è spietato e puntuale nel suo commento a botta calda sull’esito delle elezioni parlamentari spagnole. Il quotidiano più letto nella penisola iberica non si riferisce soltanto a quest’ultimo parlamento italiano, uscito privo di maggioranza dalle elezioni del 2013, ma a tutta la nostra storia di equilibrismi tattici, al pentapartito, ai governi balneari, al tentativo di compromesso storico, alle ormai leggendarie “convergenze parallele”. Insomma, ci conoscono e in un certo senso ci ammirano, questi analisti politici spagnoli. Perché anche in assenza di maggioranze certe, ce la siamo sempre cavata. Ne usciranno altrettanto indenni i parlamentari spagnoli da questo parlamento senza maggioranza?

L’esito delle urne è stata una vittoria relativa del Partito Popolare, che sfiorando il 29% dei voti, si attesta ancora a prima forza politica del paese. Ma non ha i numeri sufficienti a formare un governo da solo. Infatti il Partito Socialista ha il 22%, il partito di sinistra massimalista, Podemos, ha conquistato uno straordinario 20,7% e l’ancor più nuovo partito liberaldemocratico Ciudadanos ha un dignitoso 14% alla sua prima prova nazionale. Più frammentato di così il parlamento spagnolo non poteva essere, soprattutto considerando che Podemos e Ciudadanos, nella loro estrema diversità, sono dichiaratamente forze anti-sistema, che mal digerirebbero una coalizione di governo con i vecchi partiti. In questo scenario, re Filippo VI, il prossimo 13 gennaio, potrà dare l’incarico all’attuale premier popolare, Mariano Rajoy, che dovrà governare in un esecutivo di “grande coalizione” con i socialisti. Oppure lo darà al socialista Pedro Sanchez, che può scegliere di accettare la “grande coalizione”, oppure fare un’alleanza inedita con la sinistra estrema di Podemos. Molto più difficile vedere socialisti e Ciudadanos assieme, considerando che hanno programmi economici incompatibili. L’ago della bilancia, insomma, è uno dei perdenti: il socialista Sanchez. Spetta a lui la decisione se tenere la barra dell’esecutivo spagnolo al centro, o virare decisamente a sinistra.

L’insuccesso del governo Rajoy può cogliere di sorpresa gli osservatori economici, perché la sua politica, con tagli alla spesa pubblica anche drastici, ha fatto ripartire l’economia. Ma non l’occupazione. Il tallone di Achille del sistema spagnolo è proprio nel suo immenso tasso di disoccupazione, pari al 22,7% totale, 50,1% giovanile. Dopo quattro anni di governo Rajoy, insomma, gli spagnoli sono tornati alle urne con la pancia vuota. E hanno votato di conseguenza.

Le elezioni in Spagna, nello scenario di crisi, confermano tendenze comuni a tutti i paesi europei occidentali. Una prima caratteristica meno visibile è quella della protesta liberale, che inizia a emergere ma fatica ad affacciarsi sulla scena politica. In Paesi come la Gran Bretagna è ben assorbita dalla destra conservatrice, ma in Spagna deve trovare altre vie. In questo caso è incarnata dagli “estremisti di centro” Ciudadanos, un movimento giovane, anti-sistema, filo-Ue e liberale. Si fonda sull’idea che il nostro sistema sia in crisi non a causa dell’austerity, ma perché è troppo ingessato da tasse e regole. Che la soluzione, dunque, non sia nella maggior spesa pubblica, ma in ulteriori liberalizzazioni. L’altra caratteristica, comune ad altri paesi, è costituita dal separatismo. Mentre in Gran Bretagna trionfa l'indipendentismo scozzese (che si è imposto come seconda forza politica nelle ultime elezioni generali) e in Belgio sono i fiamminghi a voler rompere, in Spagna è ancor più forte il secessionismo catalano. Se fino a tre anni fa era un fenomeno di nicchia, a causa della crisi economica è diventato di massa, coinvolge tutti i partiti della regione autonoma ed è sostenuto dalla maggioranza assoluta della popolazione locale. In queste ultime elezioni nazionali, l’indipendentismo catalano non è visibile, legalmente parlando non è accettato dal governo di Madrid, ma sarà certamente il nodo fondamentale che il prossimo esecutivo, qualunque esso sia, dovrà sciogliere. 

Le elezioni in Spagna sono però anche una conferma di una tendenza molto più vistosa e "rumorosa" in tutti i paesi dell’Europa occidentale: l’affermazione elettorale di Podemos, dopo quella del Movimento 5 Stelle, di Syriza e del Fronte Nazionale, è l’incarnazione della protesta sociale anti-Ue. Le categorie di destra e sinistra sfumano, in questa nuova famiglia di partiti di opposizione, al punto che Tsipras, in Grecia, può governare assieme a uno dei partiti più a destra dell’emiciclo di Atene, i Greci Indipendenti di Panos Kammenos, nazionalisti dichiarati, ma con un programma economico e di politica estera analogo a quello di estrema sinistra di Syriza. Destra e sinistra non si distinguono più neppure in Italia, perché il M5S pare proprio incarnarle entrambe. Per non parlare del caso di Matteo Salvini (ex leader dei Comunisti Padani) che è talmente a destra da avere un programma economico pressoché indistinguibile da quello del leader laburista di estrema sinistra Jeremy Corbyn. Enfaticamente, Marine Le Pen, ha descritto la nuova contrapposizione all’indomani della sua sconfitta: “La scelta è tra patrioti e mondialisti”. Quello dei “patrioti” è il fronte dei partiti che, partendo dagli estremi opposti, si schierano contro la “tecnocrazia”, individuata, di volta in volta, nel sistema dei vecchi partiti e dei grandi interessi economici, nel bipolarismo dominato da conservatori e socialisti e nel progetto di integrazione europea. Alla “tecnocrazia”, questi partiti contrappongono, sia a destra che a sinistra, un modello “sovranista”: nazionalizzazioni, spesa pubblica per i meno abbienti, sovranità monetaria, protezionismo commerciale, uscita più o meno dichiarata dall’euro e dall’Ue.

Il voto cattolico non appare più compatto e schierato dietro ai partiti popolari, in questo nuovo scenario. Ma in Spagna la sconfitta dei cattolici è netta e rischia di diventare molto dolorosa nel prossimo futuro. Se nel passato più recente il governo socialista Zapatero ha portato avanti un’agenda anti-clericale militante, arrivando a istituire i “battesimi di Stato”, un’alleanza con Podemos potrebbe superare ulteriormente quei livelli di laicismo. Basti pensare che la sindachessa di Madrid, Manuela Carmena, si è subito opposta all’esposizione in pubblico del tradizionale presepe del Comune.