Sorpresa, l'aborto clandestino non è più un reato
Con il Decreto legislativo n. 8 del 15 gennaio di quest’anno buona parte dei reati puniti con la sola pena della multa e dell’ammenda vengono considerati meri illeciti amministrativi. Questa disposizione di carattere generale interessa anche il reato di aborto clandestino.
Con il Decreto legislativo n. 8 del 15 gennaio di quest’anno buona parte dei reati puniti con la sola pena della multa e dell’ammenda vengono considerati meri illeciti amministrativi. Stessa sorte anche per alcuni reati che prevedono pene detentive (ad esempio atti osceni in luogo pubblico).
Questa disposizione di carattere generale interessa anche il reato di aborto clandestino. La legge 194/78 che ha legalizzato l’aborto nel nostro Paese prevede una multa fino a 100mila lire (circa 51 euro) per quelle donne che hanno deciso di abortire in una struttura non autorizzata. Con questo decreto legislativo, invece, la condotta della donna non verrà più considerata reato, bensì qualificata come illecito amministrativo da sanzionare con una somma di denaro compresa tra 5mila e 10mila euro (per chi procura l’aborto rimane invariata la pena detentiva fino a tre anni).
Quindi, da una parte, l’ordinamento giuridico considera non più tanto grave abortire clandestinamente dato che la classe dell’illecito non appartiene più all’insieme dei reati – condotte di per sé lesive di beni socialmente rilevanti – bensì a quello degli illeciti amministrativi. Tale svalutazione dell’aborto clandestino viene compensato dall’innalzamento del valore pecuniario da sborsare in caso di condanna. Le femministe sono scese sul piede di guerra perché l’inasprimento della sanzione pecuniaria costringerebbe molte donne a non delinquere più. E, in effetti, è ciò che desidera il legislatore, rispondiamo noi. In seconda battuta si lamentano che l’aborto clandestino rimarrebbe appannaggio delle più abbienti, disposte se scoperte a pagare molto pur di sopprimere il proprio figlio, mentre le più indigenti si impoverirebbero maggiormente e sarebbero obbligate a tenersi il bambino. Ben venga per queste ultime, chiosiamo noi.
In terzo luogo – si afferma – nessuna donna avrebbe ora più il coraggio di denunciare il medico che l’avrebbe aiutata ad abortire. Risposta: non si vede il motivo per cui una donna che ha avuto il suo aborto vorrebbe portare davanti ad un giudice il medico e se stessa. Forse lo farebbe nel caso in cui qualcosa fosse andato storto? L’ordinamento giuridico potrebbe rispondere: dovevi andare ad abortire in una clinica autorizzata. Infine, in modo pretestuoso alcuni gruppi di femministe - tra cui ricordiamo l’associazione Donne in rete – tirano in ballo i medici obiettori: l’aborto clandestino esiste perché molte donne non possono abortire negli ospedali a motivo dell’assenza di medici non obiettori e quindi sono costrette a farlo in clandestinità. Ma studi di settore hanno messo in evidenza che i medici non obiettori, ahinoi, sono più che sufficienti per praticare tutti gli aborti richiesti e che laddove ci sono lungaggini per abortire – benedette lungaggini – ciò avviene a motivo dell’inefficienza della gestione ospedaliere e non a causa della scarsità di medici abortisti.
Ma il nocciolo della questione del decreto legislativo è un altro. É certo che questa sanzione economicamente assai più gravosa per le donne che hanno abortito clandestinamente è, seppur solo teoricamente, più efficace sul piano della deterrenza. Però, su altro fronte, questa novella legislativa è l’ennesima prova che l’aborto per il nostro ordinamento giuridico non è reato. Il problema secondo il legislatore non è l’aborto in sé, inteso come atto lesivo di un bene giuridico quale è quello della vita: se così fosse dovrebbe vietarlo sempre e comunque e tutti gli aborti non potrebbero che avvenire in clandestinità. Il problema giuridico, invece, riguarda il dove e il come avviene l’aborto. I profili penalistici in materia di aborto, infatti, vengono in evidenza solo per questioni procedurali: se il consultorio non propone alternative all’aborto, se non si fanno gli accertamenti del caso dopo i 90 giorni, se in caso di urgenza il medico non rilascia apposito certificato, etc.
Questo ci fa dire che la legge 194 non applica una discriminante all’aborto – abortire è reato, ma in alcuni casi non puniamo la donna – bensì lo considera un diritto, un diritto in cui si vuole tutelare la salute della donna al massimo grado. Ecco perché il disincentivo ad abortire in clandestinità. Come dire: hai il diritto a guidare l’auto, ma a patto che, a tutela della tua salute, tu metta le cinture di sicurezza, altrimenti pagherai multe salate. Le migliaia di euro da pagare sono uno sprone ad abortire secondo la legge. E l’aborto è anche un diritto perché è tale solo se si rispettano alcune regole. C’è quindi la volontà da parte dello Stato di appropriarsi del fenomeno aborto tramite una disciplina che non lasci spazi all’iniziativa privata. Questo è valido anche per gli aborti chimici nel momento stesso in cui lo Stato ha legittimato l’impiego di tali preparati abortivi in pillole.
Dunque, potremmo concludere che la 194 ha depenalizzato l’aborto, eccetto in quei casi in cui non si rispettano alcune procedure. Tali illeciti però per loro natura hanno profili più assimilabili all’ambito del diritto amministrativo che a quello penale. E, infatti, il decreto legislativo n. 8 ha depenalizzato l’aborto clandestino, proprio perché il non rispetto di alcune modalità di attuazione della pratica abortiva è affare più dei tribunali amministrativi che di quelli penali. Ciò fa supporre che forse – ma è mera ipotesi – anche le altre fattispecie di reato previste dalla 194 seguiranno medesima sorte. Uccidere un bambino senza timbri e controbolli diventerà come cacciare un fagiano senza autorizzazione. Un mero illecito amministrativo.