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AFRICA

Somalia, scene da un inferno terrestre

Un Paese in rovina fra eredità della guerra, carestia e bande armate.
E l'inettitudine cronica del governo
di transizione completa lo scempio.

Attualità 21_10_2011
ribelli antigovernativi somali

 

È deceduta una delle due donne europee rapite da uomini provenienti dalla Somalia mentre soggiornavano sulle coste del Kenya. Si tratta della cittadina francese Marie Dedieu, sequestrata il 1° ottobre nella propria abitazione nell’arcipelago di Lamu e trasportata via mare oltre confine. Era gravemente ammalata e la mancanza di cure in pochi giorni l’ha uccisa.

La sua morte è parte della tragedia umana di proporzioni apocalittiche che si sta consumando in Somalia, un Paese in rovina, in cui il disprezzo per la vita e l’irrilevanza attribuita alle sofferenze umane sembrano essere diventati sentimenti pressoché universali. Come la povera Marie, decine, anzi centinaia di altre persone del tutto inermi e indifese, che dovrebbero ispirare soltanto compassione e rispetto, ogni giorno muoiono di stenti, violenze e disperazione sotto gli occhi e nell’indifferenza di chi dovrebbe prendersene cura e che invece lascia al resto del mondo il compito di provvedere.

Una nuova carestia, una delle peggiori degli ultimi anni, affama tre milioni di somali, vale a dire quasi un terzo della popolazione sopravvissuta a 20 anni di guerra. Gran parte di queste persone per di più hanno perso casa e beni o sono state costrette ad abbandonarli per cercare rifugio e soccorso. Molte ancora vivono accampate senza neanche un tetto sotto cui ripararsi, tra le macerie di Mogadiscio o lungo il ciglio delle strade che portano ai campi profughi allestiti in Etiopia e in Kenya. Il campo di Daadab, in Kenya, ospita quasi mezzo milione di profughi pur essendo stato pensato per assisterne meno di 100mila. I disagi sono immensi e inoltre l’insicurezza crescente creata da bande armate e milizie Shabaab, il principale gruppo antigovernativo che controlla gran parte del centro e del sud della Somalia, rende sempre più difficile prestare assistenza. In questi giorni l’organizzazione non governativa Medici senza frontiere ha deciso di ritirare il personale straniero dopo che il 13 ottobre una sua equipe ha subito un’aggressione conclusasi con il ferimento di un autista e il rapimento di due operatrici spagnole.

Il Kenya ha deciso subito dopo di intervenire militarmente in territorio somalo. Soldati kenyani, inoltratisi oltreconfine per un centinaio di chilometri, stanno combattendo per creare una fascia di sicurezza il più ampia possibile: in pratica si è aperto un nuovo fronte di guerra. Nell’immediato questo peggiora ulteriormente la situazione dei civili residenti nelle zone teatro dei nuovi scontri, già coinvolti nei combattimenti tra forze governative somale e Shabaab, ma potrebbe, in caso di successo, liberarli dalla fanatica amministrazione dei “giovani” - questo significa ‘Shabaab’ in arabo - che impongono una interpretazione integralista della legge coranica e che proibiscono agli organismi umanitari di prestare soccorso alle comunità colpite dalla carestia negando l’emergenza e comunque rifiutando gli aiuti degli “infedeli”. Sempre per arginare l’avanzata degli Shabaab e per impedire che agiscano indisturbati nei territori di confine dei due paesi, ad aprile è stato creato, con il sostegno del governo kenyano, un nuovo stato somalo. È stato battezzato Azania, comprende tre regioni meridionali per un totale di 1,3 milioni di abitanti - il Medio e il Basso Juba e Gedo - e dovrebbe avere per capitale il porto di Kismayo, ora in mano agli Shabaab.

Il governo somalo aveva fermamente condannato l’iniziativa e, quanto alle azioni militari kenyane oltreconfine, dapprima le ha smentite definendole "fantasie" per poi invece, dall’oggi al domani, annunciare ufficialmente un patto con Nairobi e una "strategia comune" nella lotta contro gli Shabaab. In verità è soprattutto il comportamento del governo di transizione a rendere difficile immaginare la fine delle tribolazioni della popolazione somala. Inaffidabile e inetto, dal 2004 quando è nato in esilio, in Kenya, si regge grazie ai finanziamenti e alla protezione militare internazionali, senza aver mai realmente governato e amministrato il Paese. I suoi componenti, portavoce di clan che rifiutano di collaborare e di spartirsi il potere, ingaggiano una prova di forza dopo l’altra determinando uno stato di crisi istituzionale quasi permanente.