Soluzioni "cattive" per poveri e periferie
Poveri, periferie, migranti: parole chiave nel pontificato di Papa Francesco. Ma siamo sicuri di avere trovato definitivamente il modo giusto per portare loro aiuto? Il libro a più mani Dottrina sociale cattolica ed economia di mercato (che sarà presentato domani a Roma) aiuta a trovare gli errori dell'assistenzialismo e a correggerli.
Poveri, periferie, migranti: parole chiave nel pontificato di Papa Francesco, che sono risuonate più volte anche nella sua visita in terra ambrosiana sabato scorso. Ma siamo sicuri di avere trovato definitivamente il modo giusto per emancipare i poveri, non abbandonare le periferie e accogliere i migranti dai paesi più poveri? A questo proposito, l’editore Liberilibri di Macerata ha pubblicato il libro a più mani Dottrina sociale cattolica ed economia di mercato, curato dall'economista britannico Philip Booth. Verrà presentato a Roma, domani, su iniziativa dei think tank Acton Institute e Istituto Bruno Leoni. Come leggiamo dalla prefazione del vaticanista della Rai Aldo Maria Valli, “Caro lettore, se ti piace crogiolarti nei luoghi comuni del politically correct, se ami i rassicuranti dogmi dello statalismo, se pensi che l’assistenzialismo pubblico sia la soluzione ai problemi della disuguaglianza e che la carità vada fatta con i fondi pubblici, questo libro non è per te”. E’ un’avvertenza chiara: ci troviamo di fronte a un testo sicuramente cattolico (e ricchissimo di ampie citazioni dalle encicliche sociali), ma completamente fuori dal coro pauperista e assistenzialista che monopolizza il dibattito mediatico.
“Non è in discussione che l’obbligo di provvedere a chi ha bisogno sia una parte integrante non solo della fede cristiana ma anche della moderna idea di ciò che significa vivere in una società buona – premette padre Robert Sirico nel primo dei saggi del libro, dedicato alla questione del Welfare State – Sia che la nozione si basi su una nozione di giustizia secolare, sia che essa si fondi sull’amore cristiano, nessuna delle due giungerebbe mai a sostenere che il povero debba essere ignorato, il disabile trascurato, l’anziano dimenticato”. Tuttavia, mentre la maggioranza dei governi dell’Europa occidentale è giunta alla conclusione che “l’unica via per assicurare la fioritura di tali sostegni sia quella di un complesso apparato statale”, la cui amministrazione, ormai, monopolizza l’attenzione di tutti i partiti, Sirico fa notare che esiste una via molto più efficace e meno rischiosa. Ed è quella della sussidiarietà. La Dottrina sociale la pone fra i principi fondamentali, ma politici e amministratori tendono a dimenticarla a favore della solidarietà (come se quest'ultima fosse un principio sostitutivo e non complementare). La sussidiarietà implica che lo Stato e la sua burocrazia intervengano solo in ultima istanza, ma ad affrontare i bisogni concreti degli esclusi siano i privati, il volontariato, le comunità locali e la Chiesa.
Come sottolinea Sirico, la presunzione di monopolizzare l’aiuto ai poveri e ai bisognosi ha finito per distruggere la carità e la responsabilità. I genitori sono meno responsabili e più portati a comportamenti distruttivi nei confronti della famiglia, se c’è uno Stato-mamma che provvede a soddisfare i bisogni dell’individuo dalla culla alla tomba. La burocrazia statale, proprio per le sue dimensioni, è spersonalizzata e spersonalizzante, “non può fare le debite distinzioni fra legittime aspirazioni e illegittime richieste”. E finisce per nutrire prima di tutto se stessa, prima che i suoi beneficiari. Lo Stato sociale non riesce a risolvere la piaga della povertà, ma punta alla redistribuzione, al livellamento, alimentando una mentalità distruttiva di invidia sociale. La soluzione alternativa, lasciar libere le forze del mercato, può provocare mal di testa e capogiri ai molti, ma, come ricorda Sirico: “Risulta interessante come alcuni cristiani non riescano a vedere che la libera economia promuove la formazione di associazioni cooperative, marchi commerciali, scambio cooperativo, iniziative e istituzioni caritatevoli, famiglie e associazioni civili e come incoraggi anche la partecipazione di ciascuno nel formare istituzioni politiche coerenti con la dignità della persona”.
La stessa logica è applicabile anche nella sfera internazionale. Oggi va di moda vedere nell’immigrazione di massa dall’Africa una conseguenza dello “sfruttamento” dei paesi poveri ai paesi ricchi. Questa visione del mondo presuppone che il divario debba essere colmato con gli aiuti allo sviluppo, incoraggiati da tutte le encicliche papali dalla Populorum Progressio in avanti. Philip Booth, autore del saggio su “Aiuti, governance e sviluppo”, mette in discussione alcune premesse: siamo sicuri, come si ripete spesso, che “i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sono sempre più poveri”? La risposta, dati alla mano, è un secco: no. I poveri sono sempre meno poveri nei paesi in via di sviluppo. Restano poveri solo negli Stati “falliti”, che si sono auto-esclusi dalla globalizzazione. Gli aiuti allo sviluppo non hanno mai emancipato i poveri del mondo. Anche qui, dati alla mano, Booth dimostra sinteticamente che la differenza fra lo sviluppo e il sottosviluppo la fa il governo locale, la legge locale, il sistema locale. Dove una classe dirigente corrotta ruba i soldi dei cittadini e degli aiuti internazionale, i soldi della cooperazione internazionale non solo non aiutano, ma danneggiano lo sviluppo, impoveriscono ulteriormente la popolazione. Anche nel caso in cui i politici locali del paese beneficiario di aiuti siano in perfetta buona fede, la pioggia di denaro pubblico e la dipendenza da esso, induce la classe dirigente ad essere più responsabile di fronte al creditore internazionale che non al suo stesso popolo.
Anche qui la soluzione è nella carità, nella sussidiarietà. Non nel sistema di redistribuzione, ma nell’atto privato, volontario. Nell’investitore che apre attività in loco, nell’associazione caritatevole che aiuta direttamente chi ha bisogno. E spetta alle istituzioni beneficiarie fornire tutte le garanzie che soldi e lavoro non vadano sprecate. Anche qui una prospettiva “cattiva”, che ricorda a noi cattolici che il Buon Samaritano non era un assistente sociale. Ha assistito un uomo ferito, straniero, con i propri soldi, volontariamente e affidandolo a un oste di professione. Questa è carità, non può essere sostituita da alcun sistema redistributivo.