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MAGISTERO

Solo in Cristo la morte diventa un battesimo

«Senza la Croce l’energia della natura è impotente di fronte alla forza negativa del peccato. Era necessaria una forza benefica più grande».

Attualità 03_11_2011
Papa Benedetto XVI


Celebrando il 3 novembre la Messa in suffragio dei cardinali morti nell'ultimo anno, Benedetto XVI ha completato le riflessioni proposte il 2 novembre sulla morte, commentando un brano del Vecchio Testamento. Si tratta del Libro del profeta Osea, e in particolare del  versetto 2: «Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo ci farà rialzare, e noi vivremo alla sua presenza».

Il Papa osserva che Gesù è affezionato al Libro di Osea e lo cita spesso, ma non cita mai il versetto 2 nella sua predicazione. Non lo cita, perché lo proclama e lo realizza nella sua vita, con la sua passione. «Alla luce di questa parola, il Signore Gesù è andato incontro alla passione, ha imboccato con decisione la via della croce; Egli parlava apertamente ai suoi discepoli di ciò che doveva accadergli a Gerusalemme, e l’oracolo del profeta Osea risuonava nelle sue stesse parole: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni, risorgerà” (Mc 9,31)».

Anche i discepoli conoscevano il Libro di Osea, ma non lo capivano: «L’evangelista annota che i discepoli “non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo” (v. 32». Gesù ha spiegato chiaramente il senso del brano di Osea, eppure anche noi non lo capiamo. «Anche noi, di fronte alla morte, non possiamo non provare i sentimenti e i pensieri dettati dalla nostra condizione umana. E sempre ci sorprende e ci supera un Dio che si fa così vicino a noi da non fermarsi nemmeno davanti all’abisso della morte, che anzi lo attraversa, rimanendo per due giorni nel sepolcro».

Ma «proprio qui si attua il mistero del “terzo giorno”» cui già Osea alludeva: «Cristo assume fino in fondo la nostra carne mortale affinché essa sia investita dalla gloriosa potenza di Dio, dal vento dello Spirito vivificante, che la trasforma e la rigenera».

Si tratta, a suo modo, di un battesimo, «il battesimo della passione (cfr Lc 12,50), che Gesù ha ricevuto per noi e di cui scrive san Paolo nella Lettera ai Romani. L’espressione che l’Apostolo utilizza - “battezzati nella sua morte” (Rm 6,3) - non cessa mai di stupirci, tale è la concisione con cui riassume il vertiginoso mistero. La morte di Cristo è fonte di vita, perché in essa Dio ha riversato tutto il suo amore, come in un’immensa cascata, che fa pensare all’immagine contenuta nel Salmo 41: “Un abisso chiama l’abisso / al fragore delle tue cascate; tutti i tuoi flutti e le tue onde / sopra di me sono passati” (v. 8)».

Sì, la morte ci fa pensare a una caduta vertiginosa, ma «l'abisso della morte viene riempito da un altro abisso, ancora più grande, che è quello dell’amore di Dio, così che la morte non ha più alcun potere su Gesù Cristo (cfr Rm 8,9), né su coloro che, per la fede e il Battesimo, sono associati a Lui: “Se siamo morti con Cristo - dice san Paolo - crediamo che anche vivremo con lui” (Rm 8,8). Questo “vivere con Gesù” è il compimento della speranza profetizzata da Osea: “… e noi vivremo alla sua presenza” (6,2)».

Nell'udienza del 2 novembre il Papa aveva fatto notare che questa speranza si ritrova in ogni religione autentica. E tuttavia, ha precisato nell'omelia per i cardinali defunti, «in realtà, è solo in Cristo che tale speranza trova il suo fondamento reale».
La speranza naturale di un superamento della morte nelle religioni precristiane non era prima di valore, ma era continuamente espost al rischio di ridursi a semplice metafora naturalistica. Dunque «rischiava di ridursi ad un’illusione, ad un simbolo ricavato dal ritmo delle stagioni: “come la pioggia d’autunno, come la pioggia di primavera” (Os 6,3)».  «Al tempo del profeta Osea, la fede degli Israeliti minacciava di contaminarsi con le religioni naturalistiche della terra di Canaan, ma questa fede non è in grado di salvare nessuno dalla morte».

Oggi siamo tentatati da un nuovo paganesimo che, come quello vecchio, al massimo di fronte alla morte riesce a parlare di cicli naturali. «Invece l’intervento di Dio nel dramma della storia umana non obbedisce a nessun ciclo naturale, obbedisce solamente alla sua grazia e alla sua fedeltà. La vita nuova ed eterna è frutto dell’albero della Croce, un albero che fiorisce e fruttifica per la luce e la forza che provengono dal sole di Dio».

Le speranze naturali e quelle pagane non salvano dalla morte. «Senza la Croce di Cristo, tutta l’energia della natura rimane impotente di fronte alla forza negativa del peccato. Era necessaria una forza benefica più grande di quella che manda avanti i cicli della natura, un Bene più grande di quello della stessa creazione: un Amore che procede dal “cuore” stesso di Dio e che, mentre rivela il senso ultimo del creato, lo rinnova e lo orienta alla sua meta originaria e ultima».

La fede e la Scrittura ci dicono che questa sconfitta della morte è avvenuta in un tempo preciso. «Tutto questo avvenne in quei “tre giorni”, quando il “chicco di grano” cadde nella terra, vi rimase per il tempo necessario a colmare la misura della giustizia e della misericordia di Dio, e finalmente produsse “molto frutto”, non rimanendo solo, ma come primizia di una moltitudine di fratelli (cfr Gv 12,24; Rm 8,29)». Dopo la morte e la risurrezione del Signore, «ora sì, grazie a Cristo, grazie all’opera compiuta in Lui dalla Santissima Trinità, le immagini tratte dalla natura non sono più soltanto simboli, miti illusori, ma ci parlano di una realtà. A fondamento della speranza c’è la volontà del Padre e del Figlio, che abbiamo ascoltato nel Vangelo di questa Liturgia: “Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io” (Gv 17,24)».