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Social vietati ai 16enni, pregi e rischi

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Il provvedimento australiano solleva domande fondamentali. L’intento è lodevole, ma c'è il rischio di creare una generazione di “nativi digitali clandestini”, pronti a bypassare ogni controllo.

Editoriali 06_12_2024 English Español

L’Australia ha recentemente compiuto una scelta audace vietando i social network ai minori di 16 anni, una mossa che ha acceso un pesante dibattito. La nuova legge, infatti, impone alle piattaforme (ancora non ben definite, in realtà) di impedire l’accesso ai giovani, pena multe fino a 32 milioni di dollari. Questo provvedimento nasce dal crescente allarme sull’impatto dei social sulla salute mentale, sostenuto da studi e testimonianze che collegano l’uso dei social a fenomeni di bullismo e autolesionismo e di cui abbiamo già parlato nelle pagine de La Nuova Bussola.

Secondo il primo ministro Anthony Albanese, leader del Partito labourista australiano, la legge rappresenta un baluardo contro le conseguenze nefaste della tecnologia sui giovani. Tuttavia, l’applicazione pratica della normativa presenta delle lacune: non è ancora chiaro come verrà verificata l’età degli utenti senza ricorrere a documenti d’identità, una misura che solleva preoccupazioni per la privacy. Inoltre, piattaforme come YouTube o WhatsApp potrebbero essere escluse dal provvedimento, nonostante la loro popolarità tra i più giovani.

Nonostante le zone d’ombra, la legge sembra aver ottenuto un vasto consenso nel pubblico: il 77% degli australiani si è dichiarato favorevole, secondo un recente sondaggio. Tuttavia, non mancano le critiche. Alcuni gruppi per i diritti umani temono che il divieto possa isolare i giovani più vulnerabili, privandoli di reti di supporto cruciali, altri esprimono preoccupazioni per un possibile aumento della sorveglianza digitale.

Oltre all’Australia, anche altri Paesi hanno adottato normative restrittive per limitare l’accesso dei minori ai social network. In Francia, è stata approvata una legge che obbliga le piattaforme social a verificare l’età degli utenti e a ottenere il consenso dei genitori per i minori di 15 anni. Le aziende che non rispettano queste regole rischiano multe fino all’1% del loro fatturato globale. La legge consente inoltre ai genitori di sospendere gli account dei figli minori di 15 anni e richiede strumenti per limitare il tempo passato online dai giovani.

Negli Stati Uniti, la questione è controversa. Ad esempio, lo Utah ha introdotto leggi che impongono limiti di utilizzo dei social per i minori, come il coprifuoco notturno e il consenso dei genitori per l’iscrizione. Analoghe normative sono state adottate in Texas e Arkansas. La Florida ha proposto un divieto simile per gli under 14, ma il provvedimento è stato ostacolato da questioni legate alla libertà di espressione.

D’altra parte, la Cina si distingue per il suo approccio rigido. L’uso di social media come Douyin (versione locale di TikTok) è limitato a 40 minuti al giorno per gli utenti sotto i 14 anni. Inoltre, il governo impone rigidi controlli sull’accesso e sui contenuti, con un sistema che prevede anche l’obbligo di identificazione personale per l’accesso alle piattaforme.

Il problema principale però è relativo alla verificabilità dell’età degli utenti sui social media: una delle principali sfide per l’implementazione delle normative restrittive. Attualmente, le soluzioni adottate variano in efficacia e grado di invasività, con diversi paesi che sperimentano tecnologie innovative per affrontare questa questione. Ad esempio, il Regno Unito ha esplorato l’uso di servizi di verifica forniti da terze parti, che controllano l’età tramite strumenti biometrici o database esistenti, come registri elettorali o bancari. Questi metodi offrono un compromesso tra sicurezza e privacy, ma sono ancora in fase di implementazione.

Anche le stesse piattaforme si muovono nella direzione tracciata da diversi governi. Instagram starebbe sperimentando soluzioni biometriche come il riconoscimento facciale per stimare l’età degli utenti. Questi metodi, benché promettenti, sollevano preoccupazioni sulla raccolta e gestione dei dati sensibili.

Da un punto di vista educativo, la mossa australiana si allinea alle proposte di esperti come Alberto Pellai e Daniele Novara, che suggeriscono di limitare l’accesso agli smartphone per i minori di 14 anni. La loro posizione si basa sul rischio di dipendenza che social e videogiochi possono indurre, compromettendo lo sviluppo cognitivo ed emotivo.

In definitiva, il provvedimento australiano solleva una domanda fondamentale: è possibile proteggere i giovani senza limitare la loro libertà? Mentre l’intento appare lodevole, il rischio di creare una generazione di “nativi digitali clandestini”, pronti a bypassare ogni controllo, è reale. Il futuro dirà se questa strada segnerà un nuovo standard globale o un esperimento destinato a fallire.